Le ultime settimane hanno visto il progetto europeo malmenato da esitazioni collettive ed egoismi nazionali. Politicamente, per far fronte all’aggressione dell’Ucraina, l’Europa si è mossa in modo abbastanza coeso, mettendosi d’accordo su pacchetti di sanzioni via via più stringenti, e su di una strategia coordinata di aiuti militari.

Complessivamente il fronte unito ha tenuto, e siamo arrivati la settimana scorsa all’ottavo pacchetto di sanzioni. Ma su tutto il resto i paesi europei si sono mossi in ordine sparso.

Dalle strategie di contenimento dei prezzi, agli interventi sul mercato del gas (che fosse il tetto al prezzo all’ingrosso o la riforma del mercato Ttf di Amsterdam), passando per la centrale unica degli acquisti, abbiamo visto all’opera l’Europa degli anni Duemila e dieci: lentissima, preda di veti incrociati, retta da leader incapaci di guardare al di là del proprio (limitatissimo) orizzonte temporale.

La Germania da sola

Le ultime settimane sono state particolarmente sconfortanti. Prima la Germania ha annunciato un piano da duecento miliardi per contenere i costi dell’inflazione, suscitando l’ira di partner europei e di alcuni esponenti della Commissione europea.

Il governo tedesco è stato accusato di comportarsi in modo non cooperativo (non tutti i paesi possono permettersi un sostegno all’economia di questa dimensione) e di violare (nei fatti se non nella forma) le norme sugli aiuti di stato.

Le imprese tedesche i cui costi saranno ridotti avranno infatti un vantaggio competitivo e potranno espandere le proprie quote di mercato ai danni dei concorrenti di altri paesi.

Se è certo una buona notizia che la Germania abbia deciso di sostenere la domanda globale con una manovra espansiva in un momento di rallentamento dell’economia, la modalità scelta desta effettivamente molte perplessità: in passato, i tentativi tirarsi fuori dai guai cercando di rosicchiare quote di mercato ai concorrenti (le politiche dette di beggar thy neighbor) non hanno mai portato a grandi risultati.

La scelta tedesca è ancora più criticabile se si considera la rapidità con cui contestualmente ha affossato sul nascere, insieme all’Olanda, la proposta di istituire uno SURE energetico.

Ricordiamo che lo Sure è un fondo creato nel 2020 che si era finanziato per 100  miliardi sui mercati a tassi preferenziali (grazie alle garanzie comuni) poi trasferire questi fondi ai paesi membri, sempre a tassi preferenziali, per spese destinate al sostegno del mercato del lavoro.

Lo Sure ha avuto successo, e la proposta di replicarlo per le spese destinate a calmierare i prezzi dell’energia sembrava sensata e simbolicamente importante, dando il segnale di uno sforzo comune per far fronte, come nel 2020, ad un’emergenza anch’essa comune.

Prima di affossare lo Sure energetico la Germania e altri paesi avevano anche bloccato, nel maggio scorso, la proposta franco-italiana di istituire un nuovo piano di investimenti simile a Next Generation Eu (Ngeu) per finanziare spese militari e gli investimenti per l’autonomia energetica.

La pandemia 

Insomma, dal febbraio scorso sembra di essere tornati al periodo della crisi del debito sovrano, con paesi litigiosi, nessuna disponibilità a sforzi comuni e politiche non cooperative.

Eppure, il passato recente ci ha mostrato che un altro modo di far fronte alle crisi è possibile. Nella primavera del 2020, di fronte allo tsunami del Covid, i paesi europei si sono mossi presto e bene, coordinandosi in una risposta comune.

Il già citato meccanismo Sure, il Mes sanitario (purtroppo mal concepito e quindi morto per mancanza di interesse), la politica di acquisti di titoli lanciata dalla Bce, hanno in poche settimane aperto un ombrello protettivo su paesi che necessitavano di uno sforzo colossale per far fronte alla pandemia.

Lo sforzo comune ha minimizzato i costi della risposta alla pandemia (non solo per i paesi più fragili) e ne ha massimizzato l’efficacia. Il rimbalzo del 2021, e gli effetti tutto sommato limitati dei lockdown sul mercato del lavoro e sulla mortalità delle imprese, stanno lì a dimostrarlo.

Soprattutto, l’Ue ha stupito per la sua capacità, per la prima volta da decenni, di pianificare il futuro. Next Generation Eu, sia pur imperfetto, rappresenta uno strumento innovativo, approvato anch’esso in poche settimane, che ha efficacemente coniugato il rilancio dopo la pandemia con gli obiettivi di lungo periodo della transizione ecologica e digitale.

Cosa è cambiato in due anni? All’apparenza moltissimo, in realtà pochissimo. Commentando la svolta “solidale” della Germania, all’epoca, mi trovai a citare la celebre massima di Adam Smith per cui non è dalla benevolenza del macellaio che dobbiamo aspettarci che ci venda della buona carne, ma dal suo perseguire il proprio interesse.

Nel 2020 non eravamo tutti più buoni. Semplicemente, gli interessi di alcuni paesi si erano allineati con quelli comuni. La Germania si era improvvisamente trovata a dover contare sul mercato europeo come sbocco dei propri prodotti e come fornitore di beni intermedi, e a dover fare i conti con gli effetti di molti anni di parsimonia sugli investimenti e sullo stock di capitale pubblico e privato del paese.

Per entrambi i motivi, un rilancio rapido dell’economia europea era negli interessi della Germania, il che contribuisce a spiegare perché questa sia stata motore di tutte le azioni comuni, in particolare di Next Generation Eu. Nel 2022 la Germania (come tutti i paesi europei) continua a fare i propri interessi, e insieme ad altri ritiene di poter trarre più vantaggi dall’agire sola che dal costruire una risposta comune all’aumento dell’inflazione e alla scarsità di energia. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque.

La miopia delle élite tedesche

In realtà, questa strategia è miope e in ultima analisi dannosa anche per gli interessi tedeschi. Durante la crisi del debito sovrano l’unica preoccupazione della Germania era che l’euro fosse stabile e che i mercati finanziari non facessero le bizze.

Se il prezzo da pagare per questo era da un lato l’austerità imposta ai paesi della periferia (e non solo), dall’altro la Bce lasciata sola a combattere la deflazione con il whatever it takes e con gli acquisti di titoli, questo non era ritenuto un problema, visto che a partire dal 2008 la Germania aveva riorientato gran parte delle proprie esportazioni verso i paesi extraeuropei.

Durante la pandemia argomentavo che la crescente instabilità geopolitica (evidente già prima della guerra in Ucraina) e la fragilità del sistema globale delle catene del valore evidenziata dalla pandemia rendevano questa strategia rischiosa, e che la svolta su Ngeu e su un’eurozona più prospera e coesa rifletteva forse la volontà della Germania di riorientarsi verso i mercati nostrani; certo più sonnacchiosi di quelli globali, ma anche meno rischiosi.

E oggi? Oggi i mercati globali sono ancora più instabili, la necessità di fare fronte comune (ad esempio sui mercati dell’energia) più marcata, il bisogno di accorciare le catene del valore e rimpatriare produzioni e mercati più vicini a Berlino più impellente.

Se possibile, un’Europa prospera, coesa e dinamica, è oggi ancora più necessaria per il futuro della Germania di quanto non fosse nel 2020.

Quello che è cambiato quindi non è il contesto, ma la capacità di guardare avanti. Nel 2020, per un breve momento, la Germania aveva osato guardare al futuro e partecipato allo sforzo collettivo di costruire un’Europa più forte; nel 2022 le élite tedesche sono colte da una frenesia di tornare al passato.

Qualche settimana fa su queste colonne sostenevo che questo rischia di affossare l’Europa; gli ultimi avvenimenti mostrano che le cose stanno anche peggio. L’integrazione europea è più in pericolo oggi di quanto non fosse durante la crisi del debito sovrano.

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