In una delle tante voci di spesa contenute nell’ormai famoso maxipacchetto da 106 miliardi di dollari, chiesto al Congresso americano dal presidente Joe Biden lo scorso 20 ottobre, c’era una piccola richiesta che si notava meno rispetto ai 60 miliardi destinati alle forniture belliche all’Ucraina e ai 14 miliardi promessi allo Stato d’Israele: 1 miliardo e 200 milioni destinati alla lotta contro il traffico di fentanyl, un oppioide proveniente principalmente dal confine messicano. Solo nell’ultimo anno questa droga sintetica ha provocato circa 75mila morti per overdose sul territorio statunitense.

Non stupisce dunque che tra le richieste fatte dall’inquilino della Casa Bianca al presidente cinese Xi Jinping ci sia anche quella di far qualcosa contro le aziende con sede nel paese asiatico che producono componenti chimici usati nella produzione del fentanyl. Xi ha promesso di colpire queste società. C’è però il dubbio che questa sia soltanto una dichiarazione di circostanza. E del resto, fino a qualche giorno fa, l’accusa da parte statunitense era che la Cina si impegnasse soltanto per limitare il traffico diretto verso le coste americane, ma non facesse nulla per quelle navi dirette in Messico.

Da parte cinese invece si replicava che l’epidemia di morti da fentanyl era tutta colpa di Washington. Ora è difficile ravvisare tra le righe dei comunicati diplomatici la volontà di Pechino di fare un passo in più per arginare il fenomeno. Il problema quindi rimane, nonostante l’indubbio impegno dell’amministrazione Biden. Oltre alle sanzioni come quelle previste in un piano diramato lo scorso aprile che prevedeva anche una condivisione delle fonti di intelligence, cosa resta da fare per la Casa Bianca? Rispolverare un vecchio strumento un tempo detestato, come l’oscura sezione 702 di un emendamento legislativo del 2008 a una legge, il Foreign Intelligence Act del 1978, risalente ai tempi della Guerra fredda.

Nei paragrafi sopraccitati si legge che l’Fbi e le altre agenzie di intelligence possono prendere di mira anche i device tecnologici di proprietà di chi non è cittadino americano. Quando nel luglio 2008 si approvò questo controverso emendamento, il presidente era George W. Bush e tra i principali obiettivi di questo ampliamento di potere dei servizi segreti c’erano ovviamente le organizzazioni terroristiche di matrice islamica come al Qaida. Oggi invece, come dichiarato lo scorso marzo dal direttore della Cia William Burns durante un’audizione al Senato, questo strumento è particolarmente utile contro i cartelli della droga messicani. E ad agosto 2023 Matthew Olsen, uno dei vice del procuratore generale Merrick Garland, ha pubblicato un commento sul sito d’informazione politica The Hill proprio per invitare i legislatori a rinnovare questa autorizzazione a intercettare i cellulari degli stranieri. Non solo contro i cartelli messicani, ma anche contro i potenziali rischi dello spionaggio cinese.

Ovviamente il rinnovo di un programma di spionaggio così vasto è aspramente criticato sia dai progressisti, che lo hanno sempre visto come un’intrusiva modalità di controllo dei cittadini americani con contatti all’estero, sia dai trumpiani, ormai diffidenti dell’Fbi, vista come il principale strumento governativo della persecuzione giudiziaria nei confronti di Donald Trump.

Il presidente Biden però a questo punto non ha altra scelta che continuare a fornire alle agenzie di spionaggio uno dei pochi strumenti che hanno mostrato una certa efficacia nel limitare i danni da fentanyl, anche per la dimostrata inefficacia dei controlli di frontiera, che riescono a fermare circa il 5-10 per cento della quantità di sostanza che arriva sul territorio nazionale, per citare una stima ottimistica. Più che a Xi, Biden deve rivolgersi al suo predecessore George W. Bush, metaforicamente parlando, per ottenere un rinnovo di una modalità discussa di controllo high-tech che tutto sommato potrebbe piacere a quei repubblicani istituzionalisti che lo stanno aiutando in questa difficile fase della sua presidenza.  

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