I suoi detrattori lo chiamano «il generale che perde tutte le battaglie» eppure una resilienza di ferro ha permesso a Khalifa Haftar di rimanere ancora in sella. L’ultima trovata: riuscire a balzar fuori dall’isolamento mediante la cattura e la liberazione di 18 pescatori di Mazara del Vallo, ottenendo la visita del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri italiani, nel corso del quale lui, da sempre nemico di Roma, ha ironicamente elogiato il ruolo dell’Italia nella soluzione della crisi libica. Haftar ha dimostrato ancora una volta di essere politicamente vivo. Per la comunità internazionale significa: se volete la pace non potete ignorarmi. Contro ogni previsione è l’Italia, suo ex nemico, a offrirgli tale riconoscimento e – ironia della politica – ciò potrà essere utile a entrambi in futuro.

Al fianco di Gheddafi

Nato nel 1943 nella cittadina orientale di Ajdabiya, Haftar faceva parte del gruppo di ufficiali libici che, guidati dal colonnello Muammar Gheddafi, presero il potere nel 1969 cacciando l’ultimo dei Senussi, re Idris. Haftar aveva dimostrato già allora una certa abilità nello scalare le gerarchie libiche, un gioco pericoloso visto il carattere volubile del rais.

A metà degli anni Ottanta fu posto al comando delle operazioni militari contro il Ciad, l’unica vera guerra che Gheddafi fu costretto a combattere. Il contenzioso era quello sulla striscia di Aozou che il trattato Mussolini–Laval aveva concesso alla Libia ma poi re Idris aveva retrocesso alla Francia. Gheddafi l’aveva rioccupata e annessa nel 1976.

Nel 1987, con l’aiuto di Parigi, il Ciad iniziò una campagna militare per riprenderla di nuovo e Haftar fu inviato a comandare le difese libiche. Doveva essere una semplice formalità invece fu un disastro: i libici furono sonoramente sconfitti e Gheddafi costretto a negoziare. Lo stesso Haftar fu catturato e fatto prigioniero: una vera umiliazione tanto che il leader libico, con una delle sue intemerate, gli affibbiò tutta la colpa accusandolo di tradimento e lo rinnegò. Haftar non ebbe scelta: tornare voleva dire finire davanti al plotone d’esecuzione. Al suo rilascio si dichiarò oppositore del rais e riparò in esilio in Virginia per 20 anni. In questo arco di tempo pare abbia cooperato con la Cia tramando per assassinare Gheddafi ma alcuni pensano millantasse.

La rivolta del 2011

Dopo anni di silenzio si fa rivedere durante la rivolta del 2011. Con l’inizio dell’insurrezione contro Gheddafi, Haftar torna in Libia e si unisce ai ribelli. Tuttavia molti non si fidano di lui e la morte di Gheddafi lo rigetta nell’oscurità fino al febbraio 2014 quando alla tv fa un proclama di salvezza nazionale anti islamista. Abilmente Haftar ha fiutato il vento e, dopo che le elezioni del 2012 avevano favorito nelle urne i Fratelli musulmani, decide di cavalcare la reazione laica. Il “golpe” gli serve per risalire la china della popolarità in una Libia ormai entrata nel caos.

L’operazione si chiama Karama, dignità, e fa scattare la seconda guerra civile. Haftar riceve il primo riconoscimento nel marzo del 2015 quando l’assemblea di Tobruch lo nomina comandante dell’esercito nazionale libico. Tripoli e Misurata continuano a sfuggire al suo controllo ma ora il generale incarna la lotta anti islamista sostenuta dall’Egitto. Quello che Haftar, promosso feldmaresciallo, vanta come esercito nazionale è in realtà una coalizione di milizie tenute assieme dall’avversità per i Fratelli musulmani di Tripoli.

Nel frattempo nella capitale si è insediato il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite con a capo Serraj. I tripolini hanno avuto l’abilità di accettare le conclusioni degli accordi Onu di Skirat del 2015, mentre Tobruch rifiutava proprio per la contrarietà del maresciallo. Questo ha posto Bengasi sempre in posizione di svantaggio davanti alla comunità internazionale anche se Haftar pensa di avere carte da giocare. Punta sull’accordo con i francesi, sulla relazione con i russi (che creano una base in Libia ma poi si disinteressano di lui) e con emiratini e sauditi. La sua parte sembra a un certo punto più influente: il maresciallo si dimostra abile con i media riuscendo a imporre l’immagine dell’uomo forte della Libia mentre Serraj viene costantemente dipinto come debole e ostaggio di anarchiche milizie islamiste, amico soltanto della debole Italia.

L’attacco a Tripoli

Tuttavia con il passare del tempo l’annunciata vittoria non arriva. Da una parte Roma manovra efficacemente di sponda con l’Onu e con la comunità internazionale. Dall’altra Serraj e le sue milizie non sono poi così sprovveduti. Spazientito, Haftar decide di passare all’azione e attacca direttamente Tripoli nell’aprile del 2019. Si tratta di una mossa azzardata, nemmeno del tutto negoziata coi suoi alleati. Malgrado un iniziale successo, anche questa volta fallisce: i turchi rispondono subito all’appello di Serraj fornendo aiuto militare.

Così Tripoli vince ancora una volta grazie all’antico colonizzatore che torna da protagonista dopo circa un secolo. Haftar deve ritirarsi: è la sua ultima sconfitta. Per mesi non si fa vedere e l’Onu ne approfitta per ritessere il dialogo. Sorprendentemente la vice rappresentante, l’americana Stephanie Williams, riesce laddove molti hanno fallito: Tripoli e Tobruch riprendono a parlarsi e si stabiliscono elezioni per la fine del 2021. Il percorso è accidentato ma Haftar sembra finito. Poi al largo di Bengasi vengono avvistati due pescherecci siciliani e per il furbo maresciallo rinasce la speranza.

 

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