Molti ricordano dove si trovavano la sera di venerdì 13 novembre 2015, quando si scatenò la mattanza dell’Isis a Parigi. Non si trattò di un semplice attacco all’arma bianca, bensì del più grave attentato terroristico in Europa dalle stragi del 2004 a Madrid.

Gli attacchi furono attentamente pianificati e coordinati, sebbene alcuni degli esecutori si rivelarono, per fortuna, maldestri e meno efficaci.

È il caso dei tre kamikaze dello Stade de France, due iracheni infiltrati tra i migranti dalla Grecia e un franco-marocchino, che causarono un’unica vittima.

Il piano originale prevedeva che un terrorista si facesse esplodere fra i tifosi sugli spalti, provocando il caos e spingendoli verso le uscite dove attendevano gli altri due complici.

Un esito estremamente più letale e drammatico, scongiurato da un addetto alla sicurezza che respinse ai tornelli il primo suicida.

Le immagini tv registrarono le deflagrazioni rimbombare nello stadio tra gli sguardi confusi dei calciatori. Il francese presidente François Hollande venne evacuato dalla scorta mentre giungevano notizie di attacchi multipli nella capitale, il governo annunciò lo stato d’emergenza.

Police Nationale via AP, File

Il belga-marocchino Salah Abdeslam, unico sopravvissuto tra i commando del 13 novembre, avrebbe dovuto farsi esplodere all’ingresso della metropolitana, ma gettò la sua cintura esplosiva e si dileguò verso Bruxelles.

Gli altri commando

Il secondo gruppo composto dai belga-marocchini Abdelhamid Abaaoud, ritenuto l’organizzatore degli attentati, Chakib Akrouh e dal francese Brahim Abdeslam percorse le vie del centro a bordo di una Seat e svuotò i caricatori dei kalashnikov sui clienti dei bar, provocando trentanove morti. Poi Brahim si fece esplodere e gli altri due si diedero alla fuga.

Il terzo commando, formato da francesi di origine magrebina, fece irruzione nel teatro Bataclan durante il concerto del gruppo rock americano Eagles of Death Metal, con circa 1500 spettatori.

Fued Mohamed-Aggad, Ismaël Omar Mostefaï e Samy Amimur massacrarono novanta persone, tra cui Valeria Solesin, e si barricarono all’interno. I primi ad arrivare sul posto furono due poliziotti che colpirono Samy Amimur, il quale si fece esplodere.

A quel punto si verificò un cortocircuito organizzativo, senza il quale forse si sarebbero salvate molte vite. Infatti, otto militari dell’operazione Sentinelle, simile all’operazione italiana Strade Sicure, davanti al teatro ebbero l’ordine di non intervenire e attendere l’arrivo delle forze speciali della Polizia.

Ai militari fu anche vietato di prestare i fucili d’assalto Famas ai poliziotti accorsi, che dovettero fronteggiare i terroristi armati di kalashnikov con semplici pistole.

Nel frattempo, i due jihadisti superstiti si trincerarono al primo piano con una ventina di ostaggi. Paradossalmente, le forze speciali della Gendarmeria (Gign) della vicina caserma Celestins erano pronte a intervenire, ma quella zona della città era assegnata alla Polizia, che si fece strada al primo piano solo un’ora dopo.

Il bilancio finale della strage parigina fu di 130 vittime e più di 400 feriti. Netflix ha raccontato quella notte attraverso le testimonianze dei sopravvissuti nell’efficace documentario 13 Novembre Attacco a Parigi. Ma gli errori dell’apparato antiterrorismo francese continuarono.

Il 17 novembre gli agenti della Dgsi, i servizi di intelligence, riuscirono a rintracciare i fuggitivi Abdelhamid Abaaoud e Chakib Akrouh.

Li videro salire su un taxi alla periferia della capitale ma decisero di non intervenire per paura di cinture esplosive, si limitarono così a pedinarli in auto fino all’appartamento rifugio di Saint-Denis in cui si fecero saltare in aria durante l’assalto della polizia.

La Dgsi cercava di usare veicoli di produzione straniera come Bmw, Mercedes, Audi e Seat, perché le case francesi sono abitualmente impiegate dalla polizia e facilmente identificabili, ma forse sarebbe stato meglio prenderli vivi in strada.

Le falle nell’intelligence

AP Photo/Kamil Zihnioglu, file

La macchina dell’intelligence si mise in moto per mappare la rete di fiancheggiatori, pur scontando gravi problemi di coordinazione. Dal 2008 al 2014 i servizi segreti interni francesi subirono una serie di riforme e accorpamenti che influirono sull’efficacia dell’azione antiterrorismo.

Polizia nazionale, Dgsi e Gendarmeria non condividevano le informazioni e adottavano approcci diversi. La Dgsi, che ha sia funzioni di polizia giudiziaria sia di intelligence, svolgeva operazioni rischiose senza avvisare le controparti.

Le comunicazioni tra agenti avvenivano in chat di WhatsApp create per ogni operazione, modalità teoricamente vietata, in cui postavano foto e vocali, anziché usare le radio audio-registrate ufficiali.

In passato capitò anche che un poliziotto incaricato di intercettare un sospetto gli abbia mandato un sms per errore, facendo fallire l’indagine.

Dopo gli attentati del 22 marzo 2016 all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles, fu rinvenuto il computer della cellula con una cartella “13 novembre” e delle sottocartelle nominate Groupe Omar, Groupe Francais, Group Irakiens, Group Schipol e Group Metro.

A riprova dello strettissimo legame della rete jihadista di Parigi con quella della capitale belga e del fallimento della condivisione di intelligence tra i due paesi.

Omar era il soprannome di Abdelhamid Abaaoud e il suo gruppo doveva colpire i bistrot, il “gruppo francese” era invece destinato al Bataclan, quello “iracheno” allo Stade de France. Gli ultimi due si riferivano evidentemente agli attacchi di Bruxelles.

Oltre a Francia e Belgio, anche la Germania rientrava nel disegno dei terroristi.

Il 1° febbraio 2016 un jihadista siriano disertò e riferì all’antiterrorismo di un piano simile a quello di Parigi per attaccare Dusseldorf, con un commando composto da elementi già nella città tedesca ed altri provenienti dal campo profughi olandese di Nimega.

Da quel momento i paesi europei cominciarono a condividere più informazioni sul piano giudiziario e anche nell’intelligence.

Dall’organizzazione allo spontaneismo

Photo by: Marius Becker/picture-alliance/dpa/AP Images

Gli attacchi passarono da una fase organizzata e complessa, con cellule armate ed esplosivi, ad una più semplice e spontanea, compiuta con armi bianche da singoli radicalizzati.

Nonostante i jihadisti francesi usciti di prigione fossero monitorati e inseriti nella lista Fiche S per terrorismo, in molti casi riuscirono comunque a compiere attentati: Mehdi Nemmouche al museo ebraico di Bruxelles, Amedy Coulibaly all’Hyper Cacher, Sid Ahmed Ghlam a Villejuif, Larossi Abballa a Magnanville, Adel Kermiche e Adbel Malik e Abdel Malik Petitjean a Saint-Etienne-du-Rouvray, Cherif Chekatt a Strasburgo, solo per citarne alcuni.

Anche in Belgio il detenuto convertito Benjamin Herman uccise due poliziotte e un civile nel 2018 durante un permesso premio.

Questo fenomeno è destinato a crescere con le centinaia di condannati per terrorismo e radicalizzati che usciranno presto dalle carceri europee.

Molti di loro sono schedati e osservati dalle unità di intelligence penitenziaria.

Si tratta, in qualche misura, di quel “jihadismo d’atmosfera” teorizzato dal politologo Gilles Kepel, che si lascia influenzare dalla propaganda online e dall’emulazione di altri attacchi.

Il recente episodio dell’algerino a Cannes è solo l’ultimo esempio.

I nuovi rischi

AP Photo/Francois Mori)

La fine del califfato in Siria ed Iraq è stata compensata dai successi della filiale dell’Isis Khorasan, che sta creando seri problemi al nuovo governo talebano.

Secondo l’intelligence americana, l’Afghanistan potrebbe presto diventare un santuario jihadista per Al Qaeda e per lo Stato Islamico, in competizione, da cui organizzare letali attentati in Occidente.

A questa minaccia si sommano altre incognite: tra i migranti irakeni e siriani infiltrati dalla Bielorussia in Ue si potrebbero nascondere operativi jihadisti, mentre il sostanziale fallimento delle operazioni militari francesi nel Sahel potrebbe aumentare la pressione dal Mediterraneo.

La rotta migratoria dall’Algeria alle coste spagnole e sarde può essere utilizzata da appartenenti allo Stato Islamico nel Grande Sahara per sbarcare in Europa.

Secondo alcune fonti, i servizi algerini starebbero trattando con la filiale di Al Qaeda, il JNIM, per favorire un negoziato di pace in Mali, mentre invece armano i ribelli Saharawi del Fronte Polisario contro il Marocco.

Queste dinamiche e i frequenti colpi di Stato fanno crescere l’instabilità regionale e flussi migratori con implicazioni di sicurezza.

Se l’Europa ha imparato qualcosa dalla tragica lezione del Bataclan, deve agire sui fronti di prevenzione, intelligence, cooperazione e frontiere, anticipando le minacce anziché inseguirle.

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