«Questa è una vittoria dei contadini sulle corporation». Chukki Nanjundaswamy è una leader sindacale contadina indiana, ed è la figlia di uno dei fondatori de “La Via Campesina”, movimento internazionale di organizzazioni contadine. Sa che l’annuncio di Narendra Modi ha generato entusiasmi: il primo ministro indiano ha detto che con la sessione parlamentare invernale farà marcia indietro sul suo pacchetto di riforme dell’agricoltura, che ha scatenato quattordici mesi di proteste. Sa anche che la vittoria è costata molto, «almeno settecento morti di freddo e più di un anno di proteste», e che non è il caso di smobilitare la protesta proprio ora: «Non la interrompiamo».

Segnale per l’Europa

La vittoria dal basso dei contadini indiani è anche un segnale per l’Europa. All’Europarlamento martedì torna sul tavolo la riforma della Pac (politica agricola comune) che ha sollevato, e continua a sollevare, le perplessità degli ambientalisti e non solo: continua a favorire la concentrazione dei terreni in poche, grandi mani.

Le leggi indiane

Su cosa Modi annuncia il dietrofront? Si tratta in particolare di tre leggi fatte passare per mezzo di ordinanze, sfruttando i poteri di emergenza pandemici, a settembre di un anno fa. Il pacchetto consiste in sintesi in un tentativo di smantellare il tramite (e quindi la tutela) dello stato tra agricoltori e acquirenti, aprendo alle transazioni dirette tra piccoli coltivatori e colossi privati. Comporta che i contadini finiscano in balìa delle corporation, e in più la riforma prevede espresso divieto per gli agricoltori di citare in giudizio le grandi imprese: niente cause in tribunale.

Cosa c’è in gioco

Quella riforma ha come effetto di liberalizzare e privatizzare l’agricoltura, anche se Modi ha sempre sostenuto che avrebbe «liberato» gli agricoltori. Da tempo i paesi ricchi industrializzati, in particolare Unione europea, Usa e Canada, spingono in sede di Organizzazione mondiale del commercio proprio in quella direzione: le politiche “farmer friendly” non piacciono. Prima della riforma di Modi, l’India lo è effettivamente stata, “farmer friendly”, nel senso che dal 1964 è stato in vigore il sistema “apcm”: i contadini vendono il raccolto in mercati regolati dallo stato, che in parte compra direttamente i prodotto anche per garantire il diritto all’alimentazione e a una razione minima di cibo. Quel che non compra, lo transa coi privati. Il pubblico garantisce un prezzo minimo garantito. La riforma mette a rischio il sistema, e rischia di gettare i piccoli contadini in balia dei colossi dell’agroalimentare. 

«Non smobilitiamo»

La mossa di Modi, il passo indietro, arriva a ridosso di elezioni locali in punti dell’India dove la resistenza contadina è particolarmente agguerrita. «Tornate a casa», ha detto il premier sperando che il suo annuncio smobilitasse la protesta e addolcisse l’elettorato. Ma così non sarà. «Finché non saranno cancellate quelle leggi, la protesta non verrà smobilitata» dice Chukki Nanjundaswamy, contenta sì della prima vittoria, ma anche convinta che «Modi potrebbe poi provare a far passare di nuovo quella riforma sotto altra veste». A metterla in guardia è anche l’atteggiamento tenuto dal premier in tutti questi mesi. «Non ha mai voluto incontrarci», racconta. E dire che la coalizione «riunisce oltre 400 organizzazioni». La mobilitazione permanente continua tuttora, ci sono varchi stradali dove «convergono anche 70mila contadini al giorno», e la protesta ha coinvolto centinaia di migliaia di loro. Anzi, coinvolge: ancora, e fino a prova contraria; finché la riforma non sarà davvero cosa passata.

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