Il riallacciamento delle relazioni diplomatiche ufficiali tra l’Arabia Saudita e l’Iran grazie alla decisiva mediazione cinese rappresenta un successo della diplomazia di Pechino, manifestamente iperattiva dagli ultimi mesi del 2022, quando ha ripreso a viaggiare dopo che Xi Jinping si è deciso a cancellare la politica “contagi zero”.

A Pechino si sono stretti la mano i leader di due paesi “contrapposti” – centri propulsori dell’islam sunnita e sciita rispettivamente – e ciò rappresenta di per sé uno spot per il partito comunista cinese e il suo modello di relazioni internazionali non ideologico, pragmatico, incentrato sullo sviluppo (e sugli affari).

L’accordo tra Riyadh e Tehran raggiunto a Pechino dopo quattro giorni di colloqui segreti farà inoltre dimenticare per un po’ la “neutralità filo-russa” della Cina. Ieri il direttore della commissione affari esteri del Pcc, Wang Yi, ha dichiarato che l’intesa «dimostra che la questione ucraina non è l’unico problema che il mondo deve affrontare oggi».

Ma, oltre le implicazioni più simboliche della storica stretta di mano, sotto lo sguardo di Wang, tra il consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaed bin Mohammed Al-Aiban, e l’ammiraglio iraniano Ali Shamkhani, ce n’è un’altra, che rappresenta un potenziale “game changer”.

Gli Usa spiazzati

Dopo che negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno progressivamente abbandonato un Medio Oriente nel quale, in un omonimo libro, l’accademico americano Usa Naseer Aruri li ha accusati di aver svolto il ruolo di «mediatore disonesto», la Cina vi sta entrando in maniera sempre più decisa, promettendo di stabilizzarlo. Una “pax sinica” in Medio Oriente farebbe soprattutto compiere un balzo in avanti al mondo multipolare propugnato da Pechino.

La riappacificazione di due potenze regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran – che si combattono nello Yemen – favorita dalla Cina globale rende meno isolata l’Iran e, forse, spinge i sauditi più vicini a Israele. Wang ha sottolineato che il Medio Oriente «appartiene ai suoi abitanti e che il destino della regione dovrebbe essere tenuto saldamente nelle mani dei popoli dei paesi della regione, che possono costruire un Medio Oriente più stabile, pacifico e prospero».

Evidentemente spiazzata, l’amministrazione Biden ha accusato il colpo. «Resta davvero da vedere se gli iraniani onoreranno la loro parte dell’accordo», ha detto John Kirby. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale ha aggiunto: «Certamente continuiamo a osservare la Cina mentre cerca di ottenere influenza e punti d’appoggio in altre parti del mondo nel proprio interesse egoistico».

A dicembre Xi Jinping aveva compiuto un importante viaggio proprio nella capitale saudita, dove aveva incontrato i leader dei paesi arabi. Poi era sbarcato a Pechino il presidente iraniano, Ebraim Raisi. Si era detto che fosse irritato perché le relazioni tra cinesi e sauditi si stavano facendo troppo strette, e invece era alle ultime battute il negoziato a tre che ha portato alla svolta ufficializzata l’altro ieri.

Pace nello Yemen?

La cooperazione con una regione tradizionalmente turbolenta mira a promuoverne la stabilità, nell’ambito degli obiettivi di lungo termine di Pechino. Per il suo sviluppo la Cina continuerà ad avere bisogno di idrocarburi. Attualmente, il 70 per cento del suo greggio proviene dall’estero. Di queste importazioni la metà arriva dal Medio Oriente.

Oltre che su interessi economici, il rafforzamento dei rapporti tra Pechino e le petromonarchie da una parte e, dall’altra, l’Iran, si basa sulla reciproca aspirazione a un “mondo multipolare”. Un multipolarismo che non solo prefigura la fine di quello che a Pechino chiamano “egemonismo” statunitense, ma in cui la sovranità statale non conosca limiti e il principio di non ingerenza metta al riparo da critiche sulla violazione dei diritti dell’uomo e delle più elementari libertà.

Non a caso è sottolineando il rispetto per la “sovranità” e la “non interferenza” negli affari interni reciproci, che l’Arabia Saudita e l’Iran, a Pechino, hanno concordato di attuare l’accordo sulla cooperazione in materia di sicurezza firmato il 17 aprile 2001 e quello generale raggiunto il 27 maggio 1998, volto a promuovere i rapporti economici, commerciali, di investimento, scientifici e culturali.

I dettagli dell’accordo, che tra due mesi porterà alla riapertura delle ambasciate, non sono stati ancora resi noti, ma c’è la diffusa speranza che possano includere una soluzione per porre fine al conflitto che da otto anni sta martoriando lo Yemen.

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