Durante l’ormai storico incontro nello Studio Ovale della Casa Bianca, il presidente americano Donald Trump ha detto a quello ucraino Volodymyr Zelensky: «Non avresti mai dovuto cominciare la guerra. Potevi trovare un accordo»: ma questa era una fake news perché è stato Putin ad iniziare la guerra. Poi ha continuato: «Mi dispiace dirlo, ma il tuo indice di gradimento è al 4 per cento», e anche questa era una fake news perché la popolarità di Zelensky era ben sopra il 50. E ancora: «Penso che l’Europa abbia versato 100 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina, mentre noi ne abbiamo dati 300 e più», e pure questa era una fake news perché mentre i paesi europei hanno stanziato 132 miliardi di dollari gli Stati Uniti ne hanno versati solo 114.

Si potrebbe andare avanti all’infinito: praticamente ogni frase che Trump pronuncia contiene una fake news. Perché lo fa? È il suo carattere? Gli piace mentire? No: lo fa perché sa benissimo che con le bugie si vincono le elezioni, che se dici una cosa falsa poi la gente si convince che è vera e modifica il suo comportamento: e ora la scienza ci spiega perché.

La campagna del 2016

Il termine “fake news” è entrato nel gergo comune nel 2016, durante la campagna per le elezioni presidenziali Usa, quando il giornalista Craig Silverman e il ricercatore Lawrence Alexander pubblicarono sul sito online Buzzfeed un articolo dal titolo “Come alcuni adolescenti nei Balcani stanno ingannando i supporter di Trump con le fake news”. Avevano scoperto che c’erano più di 140 siti web pro-Trump gestiti da una manciata di ragazzetti che abitavano tutti a Veles, una cittadina di 40mila abitanti nella Repubblica di Macedonia. Un post di uno di questi siti affermava che Hillary Clinton sarebbe finita in carcere perché aveva usato la sua e-mail pubblica per comunicare informazioni top secret del governo.

Questa fake news era stata condivisa o commentata su Facebook 140mila volte. La fake news più citata o inoltrata era che Papa Francesco sosteneva la candidatura di Trump, ripostata un milione di volte. I ragazzi macedoni prendevano queste fake news, che leggevano sui siti dell’estrema destra Usa, e poi li postavano sulle loro pagine: ogni volta che un utente Facebook negli Stati Uniti cliccava su uno di questi post, loro ci guadagnavano grazie alla pubblicità.

Non si è mai capito se questi ragazzi volessero solo fare soldi o invece aiutare concretamente Trump a vincere le elezioni, però l’ispiratore di tutti questi siti era Trajche Arsov, un avvocato che aveva contatti sia con l’estrema destra conservatrice americana sia con i russi. Alla fine, su Facebook la circolazione delle fake news superò quella delle notizie vere: il punteggio finale fu 8 milioni 700 mila per le fake news contro 7 milioni e 300 mila per le vere.

La strategia di Donald

A Donald Trump l’idea delle fake news piacque, e la fece sua. Qualche giorno dopo la pubblicazione dell’articolo, Trump twittò: «La Cnn sostiene che se io continuerò a lavorare per the Apprentice durante la mia presidenza. È una fake news!». E da lì in poi continuò a bollare come fake news tutte le affermazioni dei politici o dei media suoi oppositori. Durante la campagna del 2016 Trump uso il termine fake news 291 volte nei suoi post su Twitter o Facebook, che vennero condivisi o rilanciati 25 milioni di volte. Da quel momento il termine fake news ha invaso il nostro spazio dell’informazione, sui media e sui social.

Ma soprattutto Trump e la cerchia dei suoi consiglieri si resero conto di un fatto: che sia per come sono costruiti gli algoritmi dei social o che sia per come funziona il nostro cervello, fatto sta che le “fake news” circolano e colpiscono la nostra attenzione più delle notizie reali. Perciò, le fake news ti fanno vincere le elezioni. Come disse Steve Bannon, all’epoca consigliere di Trump, «i democratici non contano nulla. La vera opposizione la fanno i media. E per contrastarli c’è una sola cosa da fare: inondare tutto di merda».

Mangiare cani e gatti

Così, non sorprende che lo scorso anno, durante il suo dibattito televisivo contro la candidata democratica Kamala Harris, Donald Trump abbia annunciato: «A Springfield, negli Usa, gli immigrati mangiano i cani e i gatti dei residenti». Una fake news assurda, ma che colpì l’attenzione di tutti e di cui si continuò a parlare per mesi. Ora la scienza ci spiega che anche se sappiamo perfettamente che un’informazione è falsa, questa può avere conseguenze sulla nostra memoria e sul nostro comportamento.

Da decenni la psicologa cognitiva Elizabeth Loftus studia il fenomeno delle cosiddette false memorie. In uno studio condotto nel 1994, Loftus dimostrò che se ad un gruppo di individui adulti viene raccontato che da piccoli si erano persi in un centro commerciale e poi erano stati soccorsi e riportati a casa da uno sconosciuto – una storia totalmente falsa - il 25 per cento di loro poi si convince che quel fatto è accaduto davvero, e che quell’esperienza è stata orrenda.

Nel 2005 Loftus e il suo team hanno scoperto che impiantare un falso ricordo in un individuo può influenzarne le azioni. Hanno fatto credere a diversi soggetti che da bambini si erano ammalati dopo aver mangiato un alimento scaduto – gelato alla fragola o biscotti. Quasi la metà si convinsero che erano davvero stati male da piccoli mangiando quel cibo, e da quel giorno in poi ne consumarono di meno.

Falsi ricordi

Nel mondo reale, sono molti i casi in cui la disinformazione ha contribuito a modificare il comportamento creando falsi ricordi. Per esempio, molti hanno ascoltato la storia secondo la quale il vaccino anti-morbillo-parotite-rosolia può provocare l’autismo - una fandonia totalmente infondata e smentita dalla scienza messa in giro dal medico inglese Andrew Wakefield: in tutto il mondo sempre più genitori decidono di non vaccinare i figli, convinti che invece quella storia sia vera. Nel 2021, durante la pandemia del Covid, le due psicologhe irlandesi Ciara Greene e Gilliam Murphy hanno condotto uno studio per valutare quale sia l’influenza che le fake news hanno sul nostro comportamento.

Durante la pandemia sono state diffuse valanghe di informazioni false ed errate che hanno avuto effetti catastrofici sul nostro comportamento: per esempio, che il coronavirus era innocuo, che il vaccino era inutile e pericoloso, che la malattia si poteva curare con l’idrossiclorochina. Le due ricercatrici hanno esposto i loro volontari ad alcune informazioni vere e ad altre false sul coronavirus. Per ragioni etiche, le informazioni false erano insignificanti a sufficienza da non interferire con le campagne di vaccinazione.

Per esempio, ad alcuni soggetti dissero: «Uno studio dello University College di Londra ha dimostrato che bere più di tre tazze di caffè al giorno riduce i sintomi gravi del coronavirus. I ricercatori continuano a esplorare i legami tra caffeina e sistema immunitario». Come previsto, alcuni soggetti dello studio hanno sviluppato falsi ricordi credendo erroneamente di aver già sentito altrove quelle informazioni inventate, e molti di loro hanno dichiarato che avrebbero adottato nuovi comportamenti – cioè avrebbero bevuto più caffè. Perché le fake news si sedimentano così facilmente nella nostra memoria? Probabilmente perché grazie alla loro novità stimolano la nostra attenzione più delle notizie vere, a cui siamo invece abituati.

Perciò, che Donald Trump si circondi di collaboratori che propalano fake news - come il ministro della salute Robert Kennedy che sostiene che i vaccini causano l’autismo, o il vice-presidente JD Vance che sostiene che la Groenlandia appartiene agli Stati Uniti - non è un caso, ma il frutto di una precisa strategia.

Come possiamo fare non cadere vittime delle fake news? Numerosi studi dimostrano che il metodo più efficace è un rigoroso fact-cheking, cioè bisogna smontare le notizie false per fare capire quali invece sono le notizie vere.

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