A poco più di due mesi dalle elezioni presidenziali la politica argentina è diventata un mistero. In un paese abituato a vivere tra una crisi economica e un’altra, la politica era sempre stata una certezza: l’Argentina era peronista. Neo-liberale con Menem, socialista con Kirchner. Ma sempre peronista. E pazienza che i risultati economici fossero sempre gli stessi, l’importante era dichiararsi seguaci di Peròn, presidente dal 1946 al 1955 e dal 1973 al 1974.

D’altronde, dal ritorno della democrazia nel 1983, le poche eccezioni non peroniste non hanno saputo risolvere i problemi economici del paese anche se, a loro discolpa, hanno dovuto sempre gestire i disastri economici ereditati da altri. Nel 1983 Alfonsin dovette guidare il ritorno alla democrazia ma lasciò il paese con una iperinflazione del 3.700 per cento. Nel 1999 de la Rua ereditò dal governo di Menem un paese con un tasso di cambio fisso (un peso per un dollaro) che era diventato insostenibile per il paese. Due anni più tardi dovette lasciare la Casa Rosada in elicottero nel mezzo della crisi del debito sovrano e dell’imminente svalutazione. Nel 2015 Macri assunse la guida di un paese in cui non si sapeva nemmeno quale fosse il livello di inflazione o del deficit perché i conti erano truccati. Finì per lasciare la presidenza quattro anni più tardi dopo aver assunto un debito di 45 miliardi di dollari con il Fmi.

Così, dopo la parentesi Macri, nel 2019 i peronisti tornavano al potere e l’Argentina si confermava peronista. Peronista in salsa kirchnerista perché, dopo la presidenza del marito Nestor (2003-2007) e i suoi due mandati presidenziali (2007-2011 e 2011-2015), Cristina Kirchner era tornata al centro della politica argentina. Fu lei ad annunciare che il candidato presidente della coalizione sarebbe stato Alberto Fernández, lei sarebbe stata la sua vice. Era una formalità, per tornare al potere Cristina era costretta a presentare una coalizione guidata da un outsider, apparentemente moderato e politicamente debole.

Panqueque

La pandemia e la crisi economica hanno riportato nuovamente l’Argentina sull’orlo della bancarotta. Il governo è stato costretto a pattare con i creditori e con il Fmi ma il costo economico e sociale è stato altissimo. L’inflazione ha raggiunto il 120 per cento e il tasso di povertà il 40 per cento. Il presidente è stato di fatto commissariato, la vice si è in chiusa in sé stessa dal fallito attentato di settembre 2022 mentre iniziavano a fioccare avvisi di garanzie e condanne. A fine 2022 Cristina Kirchner è stata condannata a 6 anni di carcere per corruzione e l’inabilitazione a vita dagli uffici pubblici.

Un anno fa, nel caos economico e istituzionale, l’ambizioso presidente della Camera Sergio Massa è riuscito a farsi nominare ministro dell’Economia. Soprannominato panqueque (pancake) per la sua capacità di passare da un lato all’altro dell’arco politico, la sua ambizione era riuscire a gestire la crisi economica e presentarsi così come salvatore della patria e, di conseguenza, lanciare la sua candidatura presidenziale. Piano che sarebbe miserabilmente fallito alla prova dei numeri.

Con Massa l’inflazione è passata dall’83 per cento al 120 per cento. Ma la coalizione peronista è talmente allo sbando, con un presidente di fatto esautorato e con una vice che pensa più ai suoi problemi giudiziari, che Massa è apparso come l’unico possibile candidato di una coalizione comunque considerata perdente.

Opposizione unita

L’opposizione che ha stravinto le elezioni di metà mandato nel 2021 e per mesi è stata data in netto vantaggio si presenta unita alle elezioni (Juntos por el cambio il suo nome). Dovrà però decidere attraverso le primarie chi sarà il suo candidato presidente: Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza del governo Macri e fautrice di un approccio intransigente in economia e in politica, o Horacio Rodríguez Larreta, governatore della città di Buenos Aires e considerato un pacificatore nonché intimo amico del candidato presidente Sergio Massa.

Il disastro economico e sociale che lascia l’attuale governo farebbe ipotizzare una netta vittoria di Juntos por el cambio. Ma siamo pur sempre in Argentina. L’opposizione divisa in due anime subisce l’ascesa di Javier Milei. Un politico anticasta, personaggio eccentrico vicino all’estrema destra che propone, tra le altre cose, un fantasmagorico progetto di dollarizzazione del paese, la possibilità di vendere i propri organi e una libera circolazione delle armi. La sua candidatura si regge in piedi grazie al voto di protesta.

Fino a qualche settimana i sondaggi davano in sostanziale parità i tre schieramenti (peronisti, Juntos por el cambio e Javier Milei) e si parlava di un’elezione di tre terzi e della clamorosa possibilità che i peronisti restassero fuori dal ballottaggio. Una novità assoluta per un paese peronista e, paradossalmente, stabile politicamente. Negli ultimi giorni però si è tornato a parlare di una polarizzazione tra peronisti e opposizione.

Le elezioni primarie del 13 agosto sanciranno i candidati ufficiali delle tre coalizioni. Sicura la candidatura di Milei, quasi fatta per Massa che affronta un candidato radicale, aperta quella di Juntos por el cambio con Bullrich e Larreta che si contendono la nomina. Le elezioni saranno a ottobre, l’eventuale ballottaggio a novembre.

Bisognerà aspettare le elezioni di agosto per riuscire ad avere un’idea sulle intenzioni di voto. Negli ultimi anni i sondaggi argentini si sono rivelati spesso poco affidabili e sembrano essersi arresi in questa campagna elettorale: gli argentini non vogliono farsi intervistare di persona, ancora meno via telefono. Tra tramonto del peronismo, candidati anticasta, opposizione divisa e sondaggisti impotenti, l’esito delle elezioni politiche è più incerto che mai.

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