Migliaia di razzi sorvolano il cielo azzurro sopra Gaza, Tel Aviv, Ashkelon e Ashdod. Edifici distrutti e vittime da ambe le parti. Sarebbero 107 i morti a Gaza (tra cui 27 bambini), 7 quelli dalla parte di Israele. Diversi i capi militari di Hamas che sono rimasti uccisi nei raid. L’esercito israeliano ha fatto sapere di aver allertato circa 16mila riservisti, ovvero cittadini che hanno finito il servizio militare ma possono essere chiamati in caso di una qualsiasi emergenza. Nella notte del 14 maggio Israele ha lanciato uno degli attacchi aerei supportati dall’artiglieria pesante più massicci dell’ultima decade. Era dal 2014 che non si vedevano bombardamenti di questo tipo e la situazione inizia a preoccupare anche le Nazioni unite. Ma come si è arrivati a questa nuova escalation militare che rischia di dare vita a una nuova guerra?

Le cause dei bombardamenti

Le radici sono profonde, datano decenni, ma la recente violenza cresce e si alimenta nei giorni del Ramadan, il mese sacro in cui i musulmani digiunano dall’alba al tramonto, iniziato lo scorso 12 aprile.

Nei primi giorni le proteste dei palestinesi si sono dirette contro la decisione delle autorità israeliane di ergere barriere nell’area della porta di Damasco, nella città vecchia di Gerusalemme. Un punto di ritrovo per gli arabi nelle serate post digiuno. Una mossa che molti hanno definito non astuta, soprattutto dopo il dietrofront degli israeliani, e giustificata dal rispetto delle misure di prevenzione sanitaria dovute alla pandemia.

Le manifestazioni hanno portato a un clima sempre più teso, con aggressioni singole diffuse in città tra ebrei e arabi, ma nulla a che vedere con gli scontri degli ultimi dieci giorni. La motivazione principale che ha portato alla sommossa popolare araba è la disputa territoriale nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove risiedono più di trenta famiglie di profughi palestinesi. Le cause giudiziarie vanno avanti da tanti anni: i coloni rivendicano la proprietà di alcuni terreni nell’area in cui gli arabi si sono insediati in complessi abitativi costruiti negli anni a ridosso tra i Cinquanta e i Sessanta dalla Giordania con l’avallo dell’Onu.

Dopo l’assenso della Comunità internazionale ora le famiglie arabe che vivono a Sheikh Jarrah rischiano l’espulsione. Sono diversi i casi al vaglio dei giudici israeliani, uno di questi è in uno stato più avanzato e si sarebbe giunti a sentenza la scorsa settimana.

I precedenti gradi di giudizio dei tribunali israeliani hanno dato ragione ai coloni, incendiando di fatto una situazione molto delicata. E così dilagano le proteste nell’ultimo venerdì di preghiera del mese di Ramadan e quello prima dell’udienza finale della Corte suprema. Dal 7 maggio circolano sui social network i primi video degli scontri. I lacrimogeni da una parte e le sassaiole dall’altra sono “le armi” dello scontro. Gli idranti e i cannoni a onde acustiche hanno provato a disperdere le proteste palestinesi, ma senza riuscirci.

Nel week end la situazione degenera dopo che gli agenti israeliani entrano nella Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio) per reprimere le proteste con l’uso della forza. Non rimane illesa neanche la moschea di Al-Aqsa, considerata tra i luoghi più sacri per la religione islamica. Il bilancio finale delle proteste recita decine di arrestati e circa 300 feriti.

Si arriva così al 10 maggio, una giornata non casuale visto che ricade l’anniversario del Jerusalem Day, il giorno in cui gli israeliani festeggiano quella che considerano l’unificazione di Gerusalemme avvenuta nel 1967. Erano previsti eventi e marce dei coloni nazionalisti poi rinviate dal governo per evitare scontri e tafferugli.

Per cercare di sedare le proteste, la Corte suprema israeliana ha deciso di rinviare di un mese la decisione sulle espulsioni di Sheikh Jarrah. Ma è troppo tardi. Hamas e il movimento della Jihad islamica palestinese lanciano un ultimatum a Netanyahu chiedendo il ritiro dei soldati dalla Spianata delle Moschee e da Sheikh Jarrah entro le 18 di lunedì pomeriggio. Il resto lo racconta la cronaca: suonano le sirene e partono i primi razzi da Gaza. Dall’altra parte, Israele ha reagito con pesanti bombardamenti e inizia la triste conta dei morti civili.

Oltre ai missili terra-aria Netanyahu valuta un possibile intervento armato terrestre direttamente nella Striscia di Gaza, mentre in altre città a popolazione mista si diffondono episodi di violenza locale tra arabi e coloni ripresi dai cellulari e diffusi sul web.

Sheikh Jarrah e Gerusalemme

Per comprendere la disputa territoriale, però, è necessario contestualizzare l’importanza del quartiere Sheikh Jarrah per gli israeliani e la giurisdizione su Gerusalemme.

La città è di fatto divisa dalla cosiddetta “Green line” fin dal 1949 quando, dopo la conclusione della prima guerra tra gli arabi e gli israeliani, il trattato di pace garantì Gerusalemme ovest a Israele e la parte est della città alla Giordania. La situazione rimane pressoché stabile fino al 1967 quando con la Guerra dei Sei giorni, in cui Israele sconfisse clamorosamente l’Egitto di Gamal Abd al Nasser in meno di una settimana, gli ebrei conquistarono alcuni territori e decisero in via unilaterale di inglobare Gerusalemme est. Una decisione che non è mai stata riconosciuta dalle Nazioni unite e da altri paesi occidentali.

Oggi Israele detiene il controllo militare nell’area dopo che a fine anni Ottanta la Giordania si è tirata fuori dalla gestione amministrativa, pur non essendo d’accordo con i piani degli israeliani. Per i palestinesi, invece, Gerusalemme Est è considerata un territorio occupato e non riconoscono la presenza israeliana.

La città sacra ha un valore inestimabile per i due popoli ed è uno dei nodi più controversi per la risoluzione del conflitto. All’interno della Comunità internazionale sono consapevoli che qualunque dichiarazione fuori luogo rischia di riaccendere la miccia dopo mesi in cui, apparentemente, il conflitto “va in letargo”.

Era noto a tutti tranne che all’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump che il 6 dicembre del 2017 ha ufficialmente riconosciuto Gerusalemme come capitale dello stato di Israele e ha predisposto lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv. Quella decisione portò a ingenti manifestazioni nella striscia di Gaza con centinaia di morti e di arresti per mano dell’esercito israeliano. Ferite ancora vive che hanno aggiunto un elemento di tensione in più all’intera questione.

Tuttavia, la questione non è così semplice neanche per Israele, dove lo scontro territoriale è anche una problematica di politica interna: molti membri della società civile condannano le espansioni e la creazione di nuovi insediamenti da parte dello stato e le considerano un ostacolo all’implementazione della tanto decantata soluzione dei due stati.

A queste associazioni si contrappongono organizzazioni e aziende private come la Nahalat Shimon Company Ltd., una società registrata nel paradiso fiscale del Delaware negli Stati Uniti e quindi protetta da riservatezza, che nel 2008 ha intrapreso una battaglia legale contro le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah.

La Nahalat Shimon porta avanti la tesi che i terreni sono stati acquistati legalmente dai precedenti proprietari ebrei nel 1876 e quindi vanno restituiti ai legittimi proprietari, tanto che è già prevista la costruzione di insediamenti per ospitare fino a duecento coloni.

La questione, però, come ogni altra che riguarda questo fazzoletto di terra, è molto più ampia e complessa, e ruota attorno al “diritto al ritorno”; un tema molto sentito per i circa 5.5 milioni di profughi palestinesi.

Israele oggi impedisce che quest’ultimi facciano ritorno nei territori rientranti sotto la sua giurisdizione, ma garantisce invece il ritorno ai suoi cittadini. L’espulsione degli arabi da Sheikh Jarrah in favore dei coloni apre quindi un dibattito giuridico complesso. Infatti, secondo il quotidiano israeliano Haaretz circa il 30 per cento delle case di Gerusalemme Ovest era di proprietà di persone arabe prima della guerra del 1948, denominata dai palestinesi come al-Nakba («la catastrofe»). Sulla questione è intervenuto anche l’organismo per i diritti umani delle Nazioni unite che ha descritto l’espulsione degli arabi dalle loro case come un possibile crimine di guerra.

Un eventuale intervento giuridico internazionale oltre che a rivelarsi complesso stravolgerebbe l’attuale status quo territoriale imposto dai governi di Gerusalemme succeduti nel tempo.

L’associazione israeliana Peacenow da anni monitora i cambiamenti demografici in corso a Gerusalemme Est e attraverso grafici e numeri analizza ciò che sta accadendo nella zona della città che formalmente non è sotto il controllo israeliano. Nei primi anni 2000 i coloni residenti in questa parte della città erano oltre 167mila, nel 2019, invece, se ne contano 225mila.

I cittadini arabi sono il 38 per cento della popolazione (346.141), mentre gli israeliani raggiungono il 62 per cento (559.571) e sono di fatto la maggioranza.

Secondo i dati delle Nazioni unite, in tutta la città di Gerusalemme (est + ovest) dal 2009 a oggi sono state demolite ben 2.267 strutture che hanno causato 4.106 sfollati. Nell’ultimo quinquennio nella parte Est della città si è registrato un incremento delle demolizioni rispetto a quello precedente: soltanto nell’anno della pandemia sono state 175 le strutture abbattute, mentre in questo 2021 sono 44.

L’obiettivo di questo disegno politico è denunciato anche dalle Nazioni unite da molti anni, ovvero la frammentazione e delegittimazione abitativa dei palestinesi. Una pratica che avviene anche nei territori presenti nella West Bank e nel quartiere Silwan (anche questo nella Gerusalemme Est e al centro delle proteste di questi giorni per via di una situazione analoga a quella che c’è a Shiekh Jarrah).

Tornando alla questione di Sheikh Jarrah, non si tratta solo di una disputa territoriale. Qui entra in gioco anche l’elemento religioso. Infatti, secondo la tradizione ebraica in una grotta del quartiere è sepolto Simeone il Giusto, un importante rabbino vissuto fra il terzo e quarto secolo avanti Cristo. La tomba è una consueta meta di pellegrinaggio e ogni anno la comunità ebraica organizza eventi religiosi. L’intera questione, quindi, assume un connotato più ampio e sentito per i coloni.

Hamas, Netanyahu e l’incognita del voto

Andando oltre la cronaca, i due interlocutori di questa escalation sono il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Hamas. In questi giorni entrambi non hanno risparmiato dichiarazioni al vetriolo e promettono di rispondere occhio per occhio ai bombardamenti. Per entrambi, però, il conflitto può rivelarsi un’ottima opportunità di capitalizzazione del consenso politico. Il partito Likud di Netanyahu ha vinto le elezioni, ma i trenta seggi ottenuti (sei in meno rispetto all’ultima tornata elettorale) non bastano per una maggioranza solida e formare il nuovo governo. Non è bastata neanche l’impressionante campagna vaccinale di massa organizzata dal primo ministro e dopo il voto di fine marzo si è aperta, quindi, l’ennesima fase di incertezza politica nel paese. A inizio maggio Netanyahu ha rimesso nelle mani del presidente Rivlin il mandato di formare un governo. Per superare l’instabilità Rivlin ha affidato un mandato esplorativo al capo dell’opposizione Yair Lapid che con il suo partito Yesh Atid ha ottenuto 17 seggi. In questa fase sarà determinante l’appoggio della destra nazionalista Yemina a cui capo c’è Naftali Bennett che ha eletto 7 parlamentari (in crescita rispetto ai quattro dell’ultima tornata). Bennet è stato accusato da parte di Netanyahu di aver tradito il suo elettorato di destra e ora ha l’opportunità di superare lo stallo.

A inizio settimana si sarebbe dovuta tenere una riunione con nove partiti che sono riusciti a entrare nella Knesset (il parlamento israeliano) dopo le elezioni dello scorso 23 marzo, per vedere se ci sono i margini per dare vita a una nuova coalizione di governo dopo la quarta tornata elettorale in due anni, ma l’escalation ha posticipato la questione.

I giorni al potere di Netanyahu sembrano quasi essere conclusi dopo la carica ricoperta ininterrottamente dal 2009. Un eventuale conflitto bellico può essere un suo rilancio sulla scena politica israeliana, dopo anche le varie critiche e richieste di dimissioni avanzate dall’opposizione e dalla società civile per i tre casi di corruzione, frode e abuso di potere in cui è coinvolto. Nello specifico, Netanyahu è indagato per tre diverse vicende: la prima lo vede beneficiario di lussuosi regali per un valore di circa un milione di shekel; la seconda riguarda la presunta ricerca di un accordo con l’editore del giornale Yedioth Ahronoth che avrebbe dovuto assicurare una copertura mediatica positiva per il premier in cambio di una legge che avrebbe limitato un media rivale. Il terzo caso, invece, risale a quando Netanyahu è stato ministro delle Telecomunicazioni e secondo gli inquirenti avrebbe negoziato un accordo con il colosso dei media Bezeq per ottenere una narrazione mediatica a suo favore. Nelle udienze che ci sono state nei mesi scorsi il primo ministro ha respinto le accuse bollandole come una caccia alle streghe. La perdita della carica da premier risulta un problema non indifferente per Netanyahu che perderebbe l’immunità giudiziaria, garantita, secondo la legge nazionale, soltanto ai primi ministri in pieno mandato.

Dall’altra parte c’è Hamas, l’organizzazione politica che ha anche un’ala paramilitare fondata nel 1987 e affronta l’incognita delle elezioni legislative, previste inizialmente per il prossimo 22 maggio. Dopo quindici anni dall’ultima tornata elettorale alla chiamata alle urne si sono registrati oltre il 90 per cento dei cittadini aventi diritto di voto, presagendo una larga partecipazione nonostante la pandemia. A fine aprile il presidente palestinese Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, del partito di ispirazione laica al Fatah ha deciso invece di posticipare sia le legislative che le presidenziali – previste invece per il 31 luglio – a data da destinarsi accusando Israele di non riuscire a garantire il diritto di voto agli arabi che vivono a Gerusalemme. Secondo invece gli osservatori e fonti vicine al partito si tratterebbe di una scusa per evitare la sconfitta alle urne di Hamas.

Quest’ultimo ha il pieno controllo di Gaza dal 2007. Dichiara ispirazione islamista è considerata un’organizzazione terroristica da vari paesi come Regno Unito, Stati Uniti e anche da altri stati del mondo arabo come il vicino Egitto e la Giordania. Con al Fatah, fondato dal noto leader Yasser Arafat, arrivano allo scontro nel 2006 dopo che Hamas vinse le elezioni legislative.

Quel voto rappresenta chiaramente la frammentazione all’interno dei territori palestinesi: Gaza è la roccaforte del movimento islamista mentre la Cisgiordania è sotto il dominio di al Fatah. Nel 2006 alcuni stati occidentali, in primis gli Stati Uniti, imposero ha Hamas alcune condizioni per governare tra cui la cessione dell’attività terroristica. Israele arrestò i suoi parlamentari eletti e in pochi mesi, dopo non essere riusciti a raggiungere un accordo politico, le due fazioni arabe iniziano uno scontro armato. Nel 2014 si giunge a una riconciliazione e al Fatah promette nuove elezioni che non sono mai avvenute. Le tensioni continue con Israele hanno di fatto posticipato il voto fino all’ennesimo rinvio del mese scorso.

Questa volta, però lo spostamento delle elezioni può rivelarsi un elemento fondamentale per allargare il consenso di Hamas in caso di un intervento militare terrestre da parte dell’esercito israeliano. È un’occasione ghiotta per il movimento islamista di intestarsi la leadership per la resistenza palestinese e scrollarsi di dosso le accuse dell’inconcludenza politica e governativa del suo approccio autoritario.

La scena internazionale

Fin da subito gli Stati Uniti, il grande alleato di Netanyahu, hanno condannato l’escalation e affermato il diritto di Israele all’autodifesa. Sul fronte diplomatico, però, la questione rimane ancora ferma. Diversi paesi, tra cui la Cina, hanno chiesto una seconda riunione d’urgenza del consiglio di Sicurezza dell’Onu ma hanno incontrato il blocco degli Stati Uniti di Joe Biden che rifiuta di adottare una dichiarazione congiunta per chiedere la «riduzione dell’escalation, un cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati» definendola come controproducente in questa situazione incandescente. Dopo il bombardamento della notte del 14 maggio l’ambasciatrice statunitense all’Onu ha annunciato che una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza è stata fissata per la prossima domenica. Il presidente francese Emmanuel Macron e il Segretario generale Antonio Guterres hanno chiesto un cessate il fuoco immediato.

I paesi arabi si presentano, come accaduto spesso in passato, abbozzando timide dichiarazioni preferendo di tenersi fuori. L’Arabia Saudita ha condannato le azioni del governo di Netanyahu facendo eco alle dichiarazioni del presidente turco Erdogan che qualche giorno fa ha detto: «La Turchia farà tutto ciò che è in suo potere per mobilitare il mondo intero, e soprattutto il mondo islamico, per fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele». Ancora una volta la questione israelo-palestinese divide la società civile e i leader internazionali. Alla guerra sul campo segue quella politica, in mezzo arabi ed ebrei vittime innocenti della violenza.

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