Lo Eastern economic forum (Eef) che si è chiuso ieri a Vladivostok ha rappresentato per la Russia e la Cina un palcoscenico importante dal quale illustrare la loro visione del nuovo ordine globale che potrebbe nascere dalle macerie della pandemia di Sars-CoV-2 e della guerra in Ucraina.

Nella settima edizione della manifestazione (sponsorizzata dalle principali aziende di stato russe e alla quale hanno partecipato 58 paesi) i temi politici si sono intrecciati a quello dell’integrazione dell’estremo oriente russo nella rete di scambi e investimenti asiatici.

Quando il 4 febbraio scorso Vladimir Putin e Xi Jinping (che la prossima settimana si incontreranno a Samarcanda, in Uzbekistan) hanno sottoscritto a Pechino la dichiarazione congiunta sull’«ingresso delle relazioni internazionali in una nuova èra e sullo sviluppo globale sostenibile», il presidente russo non aveva ancora scatenato la sua «operazione militare speciale per smilitarizzare e denazificare» il paese confinante.

Passati sei mesi da quell’aggressione a uno stato sovrano, a Vladivostok è sbarcato Li Zhanshu (il numero tre della nomenklatura del Partito comunista che, sotto la guida di Xi, negli ultimi anni ha intessuto legami sempre più stretti con la Russia) per discutere di cooperazione economica e ribadire che Pechino e Mosca marciano unite per costruire quello che definiscono un «mondo multipolare».

Sovranità a oltranza

All’Eef Putin ha accennato al conflitto in Ucraina solo per assicurare che «non abbiamo perso e non perderemo nulla, mentre ne uscirà rafforzata la nostra sovranità». Una sovranità che, a Mosca come a Pechino, si traduce in una difesa senza limiti degli «interessi nazionali» e che, piuttosto che un «mondo multipolare», prefigura uno scontro sempre più aspro con le democrazie liberali.

Per l’uomo che ha ordinato l’invasione dell’Ucraina, l’occidente è «in preda a una febbre sanzionatoria, e tenta in maniera aggressiva di imporre ad altri paesi un modello di comportamento, privandoli della loro sovranità e subordinandoli alla loro volontà».

A Putin ha fatto da controcanto ieri un editoriale del Quotidiano del popolo contro le «sanzioni unilaterali imposte recentemente dagli Stati Uniti contro entità e individui cinesi» firmato da Zhong Sheng, pseudonimo utilizzato per esporre la posizione ufficiale della politica estera di Pechino.

Secondo il giornale del Comitato centrale del Partito comunista cinese gli Usa sono la «superpotenza unica delle sanzioni» che, durante l’amministrazione Trump, ha imposto 3.800 punizioni contro governi, individui, organizzazioni, aziende e «l’abuso delle sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti indebolisce anche la capacità della società internazionale di far fronte alle crisi energetiche, alimentari e finanziarie globali, trascinando il mondo in guai peggiori, mentre porta inevitabili conseguenze agli stessi Stati Uniti».

«Il price cap è stupido»

Il giorno precedente un documento riservato lo aveva avvertito che, per effetto delle sanzioni occidentali, il suo paese sarà costretto ad affrontare una lunga e profonda recessione. Ciononostante Putin ha sostenuto che «è impossibile isolare la Russia». E potrebbe non avere torto, alla luce della sua crescente integrazione con l’Asia. Secondo Putin «i paesi occidentali stanno soffrendo più della Russia per l’embargo» e «il ruolo dei paesi dell’Asia-Pacifico è cresciuto notevolmente e ciò crea nuove, colossali opportunità per il nostro popolo».

L’idea di un tetto al gas di Gazprom, per il leader russo è «stupida», anche perché la Russia non avrebbe problemi a vendere il gas ai suoi tanti partner. Durante il forum di Vladivostok Putin ha discusso con il premier mongolo, Luvsannamsrai Oyun-Erdene, del “Power of Siberia 2”. L’infrastruttura – che dovrebbe portare in Cina 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno, passando per il paese dell’Asia centrale – permetterebbe di rimpiazzare le forniture all’Europa. Ma per costruirla ci vorranno anni: il suo completamento è stato stimato per il 2030.

Sempre sul fronte delle materie prime energetiche, l’agenzia Tass ha riferito che Gazprom e la China national petroleum corporation (la principale società petrolifera cinese) abbandoneranno l’uso del dollaro Usa e passeranno ai pagamenti in rubli e yuan per le forniture di gas alla Cina.

Anche la giunta militare golpista che governa Myanmar ha annunciato durante lo Eef che sta acquistando prodotti petroliferi russi in rubli. La mossa delle società energetiche russe e cinesi – se e quando andrà a pieno regime – sottrarrà al biglietto verde un’ampia porzione del sistema di pagamenti su cui si basa il commercio internazionale di energia.

Altre grandi società russe, tra cui PJSC Polyus (oro), e Rusal (alluminio), hanno emesso obbligazioni denominate in yuan nel mercato russo. Secondo gli ultimi dati pubblicati da Pechino, il commercio con la Russia è aumentato del 31,4 per cento su base annua da gennaio ad agosto (117,2 miliardi di dollari). Le importazioni cinesi dalla Russia sono cresciute del 50,7 per cento, toccando i 72,95 miliardi di dollari.

E gli analisti cinesi sottolineano che la migrazione a oriente delle relazioni di Mosca non sarebbe un mero riflesso del conflitto in Ucraina, ma piuttosto parte dello spostamento degli interessi globali verso la regione Asia-Pacifico. A Pechino non mancano le carte per difendere (dalle sanzioni Usa) il diritto a rafforzare la cooperazione economica con un paese amico col quale continuano a fare affari anche gli alleati degli Usa intervenuti allo Eef, tra cui il Giappone e la Corea del Sud.

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