Fondere le eccellenze nazionali italiane e francesi: se ne parla da dopo il boom economico degli anni Sessanta, i “trenta gloriosi” come si dice in Francia (1945-1975). E ci si divide sulla questione. In Francia alcuni considerano tale sinergia indispensabile per controbilanciare la Germania. Altri invece non si fidano e temono la pagaille (pasticcio, confusione) italiana. Da questa parte delle Alpi esiste il partito francese che vede nella connessione solo effetti positivi. Ma altri levano gli scudi temendo di restare il junior partner posto in secondo piano.

È una dialettica che non finisce. Se ne parlò alla fine degli anni Sessanta quando Fiat e Citroen stavano per fondersi: abbiamo aspettato fino al 2020 per vedere la cosa realizzarsi tra Psa e Fca. A Roma vinsero coloro che si opposero all’entrata dell’Italia nel consorzio Airbus, per poi raggiungerlo in ritardo surclassati dalla Spagna. Ci fu la polemica sull’Airbus A400 Atlas da trasporto militare a cui Roma preferì l’Hercules della Lockheed. L’Italia non volle nemmeno entrare nel progetto Concorde come invece fecero i britannici, o in quello di Ariane a cui si unirono solo in seguito. Erano strategie commerciali miopi, basate sul brevissimo termine senza pensare alle ricadute commerciali e di ricerca a lungo termine. A scattare c’era sempre l’automatismo filo Usa, anche quando non veniva richiesto, come nella scelta tra sistema Pal o Secam per la tv a colori (che da noi arrivò più tardi).

Dalle nostre parti l’idea era che la grandeur francese non ci conveniva. Tuttavia, malgrado errori e passaggi a vuoto, i transalpini si sono modernizzati più velocemente e l’Italia è rimasta indietro nel momento di maggiori risorse. Alla fine interi settori sono spariti come l’elettronica di consumo (radio tv ed elettrodomestici), la chimica, l’avionica (superati da brasiliani e canadesi) o la nascente elettronica e informatica (ancora pensiamo all’Olivetti con nostalgia).

La paure di Parigi

Abbiamo perso grandi occasioni anche per non aver mai scelto l’alleanza né rischiato sinergie quando ci venivano proposte da Parigi. Ma anche oltralpe sono esistiti i nemici dell’Italia come quelli che dalla Francia bloccarono l’operazione della Cir sulla Société Générale belga. I francesi non sono mai riusciti ad avere il giusto atteggiamento nei confronti dei cugini latini, né uno stile adatto a convincere degli interlocutori non così difficili. Tra i due partner c’è sempre stato un gap psicologico ed emotivo. Simili e diversi, italiani e francesi non si sono mai del tutto compresi e così gli industriali nostrani sono finiti sub fornitori dei tedeschi, accettando una sicura subalternità. Eppure in campo culturale gli intellettuali delle due sponde hanno legami inestricabili.

Innumerevoli appuntamenti di retrouvailles franco-italiennes sono organizzate attorno al cinema, alla letteratura, al rinascimento, a Leonardo ecc. I francesi ci invidiano tali ricchezze, talvolta le mettono in luce prima di noi, come avvenne con il Nome della Rosa di Umberto Eco, ma cercano sempre la collaborazione. In economia tale spirito non funziona. E nemmeno tanto a livello politico. Se guardiamo agli anni più recenti notiamo un presidente Hollande che dice no a un popolarissimo Matteo Renzi, portato ad esempio dai media francesi. Il tema era il contrasto alla politica dell’austerità che Angela Merkel ancora cocciutamente difendeva. Parigi ebbe paura di forzare.

Poi con Macron la scelta si è capovolta e oggi abbiamo la prova che si poteva già fare: sarebbe stato meglio per tutti. Erano gli anni della cavalcata d’Italia di Vincent Bolloré presidente di Vivendi: girava la penisola come un ossesso, entrava in Mediobanca, Telecom e Mediaset. Renzi lo ricevette a palazzo Chigi in pompa magna: gli italiani avevano bisogno di investimenti. Ma il gran patron francese sbagliò i toni: anche la stampa francese osservò che «si comporta a Roma come fosse in Africa». L’antipatia crebbe e oggi siamo ancora alle prese con la coda di quel disegno purtroppo fallito.

Un muro di diffidenza

Tutti a Roma sono convinti che alla fin fine da Parigi si puntasse a scippare le Generali e ancora si punti a questo con Axa. Ancora una volta non si era trovato il giusto linguaggio per parlarsi. I numerosi mediatori delle due parti (molto si svolse dentro Mediobanca) non sono mai riusciti a perforare l’invisibile muro di diffidenza. La recentissima cacciata di Jean Pierre Mustier da Unicredit fa parte di tali sconfitte, in cui il lato psico-politico è talmente mescolato a quello economico da rendere ogni chiarezza quasi impossibile.

La prova? Nessun membro del cda di Unicredit né il neo presidente, se ne assumono la paternità. Le uniche operazioni riuscite sono quelle inevitabili perché la differenza tra partner era troppo grande (come Paribas-Bnl, Crédit Agricole o Edf-Edison) o quelle in puro stile da rapina come Lactalis su Parmalat. In quest’ultimo caso la francese non spese nulla ma usò i soldi faticosamente racimolati dopo il crack dal commissario Enrico Biondi. Non va però dimenticato che Lactalis possedeva già Galbani, Invernizzi, Locatelli ecc. e conosceva bene il terreno in Italia. Inoltre le banche italiane non vollero salvare il gruppo di Parma tramite i concorrenti italiani come Granarolo ad esempio.

È un vizio italico: ci si odia talmente tra locali che si preferisce vendere allo straniero. D’altronde non si comportarono così anche gli staterelli italici quando i re francesi scesero in Italia da fine Quattrocento? Una storia piena di tradimenti. Agli occhi della nostra opinione i peggiori sono quegli imprenditori italiani che si schierano coi francesi invece di mediare, come nel caso degli Aponte della Msc che, senza curarsi di quanto fossero e siano sostenuti in Italia, difesero i cantieri Stx di Saint-Nazaire da Fincantieri. Gianluigi Aponte dichiarò su Le Monde: «Faremo di tutto per evitare che Fincantieri saccheggi Saint-Nazaire ». Fu una storia talmente sordida che lo stesso Le Monde titolò a tutta pagina nel luglio del 2017: «Stx: l’affronto fatto all’Italia lascerà delle tracce». Infatti, visto anche l’atteggiamento ambiguo delle autorità sul dossier culminanti in un accordo scivoloso, la questione è rimasta aperta.

A Roma nessuno capirà mai perché i cantieri potevano stare senza problemi in mano coreana ma non italiana. L’unica amara soddisfazione è postuma e lose-lose: con il Covid il settore è entrato in tale crisi che forse a Fincantieri non conviene più acquisire Stx. Con storie così hanno buon gioco i giornali italiani a nascondere le nostre mancanze e ripetere alla noia che “i francesi ci rubano i nostri gioielli”. Come la vicenda del polo del lusso: Fendi, Pucci, Bulgari, Loro Piana ecc. Quello che non dicono è che sono gli italiani stessi a vendere: non hanno voluto né saputo allearsi fra loro per crescere. C’è anche il caso Luxottica-Essilor allo scopo di creare il più grande gruppo mondiale: è un esempio su ciò che andrebbe fatto. Ma i litigi sulla governance hanno rovinato il clima, tanto che oggi non si può dire chi diriga davvero il colosso.

Vittimismo e aggressività

Se gli imprenditori possono fare ciò che vogliono delle loro aziende, più grave è il comportamento dei governi. Quelli italiani non si sono dati nessuna strategia se non il vittimismo; gli esecutivi francesi usano dal canto loro l’atteggiamento aggressivo. Entrambi dimostrano di essere schiavi delle emozioni delle loro opinioni. Due argomenti hanno fortemente diviso Italia e Francia negli ultimi anni: migrazioni e Libia. Sulle prime i francesi sono stati assolutamente sordi a ogni richiesta di solidarietà da parte italiana, malgrado il lip service del presidente. Sulla Libia ci si è addirittura opposti.

Risultato pessimo per entrambi: nulla di fatto nelle politiche migratorie europee, ostaggio del gruppo di Visegrád, né sulle politiche verso l’Africa. Per la Libia ancora peggio: i turchi hanno sconfitto Haftar con i francesi e umiliato gli italiani, mettendoli ai margini. Exit Europa. Una rivalità mai chiaramente ammessa ma stoltamente praticata porta a fallire. Si è giunti al punto che, durante il Conte I, Parigi ha ritirato il suo ambasciatore dopo gli insulti ricevuti e il grave infortunio dell’incontro tra pentastellati e gilet gialli estremisti. Dopo tali miserie, urge una strategia politica.

I due governi devono darsi un accordo quadro entro il quale possano incontrarsi le attività economiche: una speciale golden share unitaria con regole definite, che i governi si impegnano a utilizzare congiuntamente ogniqualvolta l’equilibrio di governance lo richieda. Farà storcere la bocca ai liberisti perché imbriglia il mercato: tuttavia visti gli errori, i passaggi a vuoto e le occasioni perse, è assolutamente necessaria e nulla vieta ai governi di usare assieme le rispettive golden share. L’altro versante è la politica estera: Farnesina e Quai d’Orsay devono istituire una cabina di regia sulle crisi. Ce n’è assolutamente bisogno soprattutto in Africa, in medio oriente e nel Mediterraneo. Il vantaggio sarebbe reciproco: più incisività per l’Italia e più moderazione per la Francia. Le avventure solitarie sono da escludere perché pericolose o velleitarie.

Davvero Parigi può continuare a pensare che basti avere l’arma nucleare e stare nel ristrettissimo club dei 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'Onu? Allo stesso tempo può l’Italia continuare a vivacchiare sotto un ombrello americano che non esiste più, senza mai prendersi responsabilità? I casi recenti di Siria, del Sahel, Tunisia, Libano o Caucaso meridionale parlano da sé. Il caos attuale consiglia unità di intenti e azione. Se Parigi smette di dare lezioni, Roma di svicolare ed entrambi di diffidare, ecco due idee per un’agenda non retorica per il futuro Trattato del Quirinale.

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