Guardandolo dal mare, non parrebbe che il Libano galleggi nel vuoto. Beirut è la consueta città in movimento, segnata da un caotico dinamismo. Tutto sembra procedere, ma si tratta di una maschera: quello dei Cedri è un paese senza.

Senza stabili guide delle istituzioni. Senza presidente della Repubblica, senza capo del governo – Najib Mikati, imprenditore miliardario a capo di un partito, l’Azm, che alle elezioni politiche del maggio 2022 non ha ottenuto nemmeno un seggio, guida un debolissimo esecutivo provvisorio – senza governatore della Banca centrale, il discusso Riad Salamé, che quel strategico ruolo ha occupato per oltre trent’anni, dagli euforici anni del dopo guerra civile sino a quelli, recenti e poco magici, della vertiginosa caduta, tenendo le redini dell’economia con la sua sin troppo “creativa” e disinvolta ingegneria finanziaria” ora oggetto di inchieste internazionali.

Una crisi economica senza precedenti, quella attuale, gravata dal fallimento del sistema bancario, da un’inflazione che un tempo si sarebbe detta “ sudamericana”  – 260 per cento nella prima parte dell’anno, con punte del 350 per cento sui beni alimentari –  dalla svalutazione del 90 per cento della lira libanese, dal precipitare dell’80 per cento della popolazione sotto la soglia della povertà.

Pesano, inoltre, le profonde ferite – sociali non solo urbane – provocate dall’esplosione al porto di Beirut, disastro ancora senza colpevoli, anche per effetto degli attacchi agli inquirenti portati da forze che non intendono far luce sull’accaduto , emblema della deflagrante paralisi libanese.

Situazione aggravata anche dalla grave crisi sanitaria nei campi profughi che ospitano i siriani fuggiti dal loro paese a partire dal 2011, nei quali dilagano epidemie. In politica i vuoti si riempiono: sempre.

È una regola classica. Eppure, nonostante il catastrofico scenario, il Libano lascia vuote le sue istituzioni chiave, strettamente intrecciate dal patto costituzionale del 1943 poi modificato dagli accordi di Ta’if del 1989, che prevede un cristiano alla presidenza della Repubblica, un musulmano sunnita primo ministro, un musulmano sciita alla guida del parlamento.

La casella presidenziale è scoperta da quasi un anno ma, dopo dodici scrutini, l’Assemblea nazionale non è ancora riuscita a eleggere il successore dell’ultimo presidente, Michel Aoun.

Avere un nuovo inquilino a palazzo Baabda è essenziale in un sistema politico fondato sugli equilibri confessionali ma la natura del braccio di ferro in corso non consente nemmeno di fissare la data del prossimo scrutinio.

Anche fuori dal paese rivierasco si preme perché si giunga a una rapida soluzione ma, sino a oggi, né la Lega araba, né il “quintetto” formato da Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Stati Uniti e Francia, sono riusciti a sbloccare l’impasse.

Memore del suo storico rapporto con il Libano, la Francia ha nominato un inviato speciale , Jean-Yves Le Drian ma, sin qui, l’ex ministro degli Esteri poco ha potuto, limitandosi, in attesa di un nuovo, imminente, viaggio a Beirut, a sottoporre ai diversi partiti, nello sconcerto di questi, un questionario metodologico mirato a definire l’identikit di un possibile presidente unitario e facendo balenare un terzo nome lasciato cadere dai schieramenti. Passo falso, quello dell’inviato di Macron, che ha rimesso in gioco il protagonismo del Qatar.

Compromesso a rischio

La partita presidenziale si è fatta molto difficile in una fase in cui le forze politiche e confessionali sentono di essere a un passaggio decisivo per la tenuta del compromesso che, in qualche modo, ha dato forma alla costituzione materiale post-guerra civile degli ultimi decenni.

Il campo sciita, formato dall’islamista Hezbollah e dai suoi alleati di Amal, ha indicato come nuovo presidente l’ex- premier Suleiman Frangieh, rampollo di una delle famiglie maronite che contano e leader del partito Marada.

Da tempo, come ricorda anche la presa di posizione a favore di Assad durante la guerra civile in Siria, parte della comunità cristiana si è alleata con le formazioni di Nasrallah e Berri, interessati, soprattutto il primo, a stabilizzare l’arco sciita che si tende da Teheran a Beirut passando per Damasco.

Nessuna deriva religiosa o ideologica in questa scelta, solo calcolo politico: stare con chi è, politicamente e militarmente, più forte in Libano, come il Partito di Dio pur uscito ridimensionato dalle ultime elezioni, garantisce l’accesso al potere senza subire veti da confratelli confessionali che sono aspri rivali interni.

Come il cristiano maronita Samir Gaegea, leader delle Forze Libanesi, unico tra i capi delle fazioni che furono protagoniste della guerra civile, e dei molti crimini che vi furono commessi, a essere condannato: in un processo che farà discutere gli saranno inflitti quattro ergastoli, verrà amnistiato dopo undici anni di carcere molto duro nel 2005.

Gaegea , sempre su posizioni anti siriane e anti iraniane, dunque anti-Hezbollah, accusa lo sceicco Nasrallah di voler mantenere bloccata l’elezione presidenziale , rifiutando ogni possibilità di dialogo con il Partito di Dio.

Dopo aver puntato sul giurista Michel Mouawad, Gaegea e l’opposizione sunnita, uniti dal cemento antisiriano e antisciita, hanno candidato Jihad Azour, economista , già ministro delle Finanze, ora al Fondo Monetario Internazionale, che nella seduta elettiva di giugno ha ottenuto 59 voti, contro i 51 di Frangieh, 18 schede bianche. In un’elezione che prevede un quorum di 86 voti , difficile da raggiungere in uno scenario altamente polarizzato, le sue chances paiono nulle.

La paralisi, insomma, continua. Anche fuori dai palazzi un tempo simbolo del potere , poco o nulla si muove. La protesta del 2019, che aveva come obiettivo anche le storiche dinamiche istituzionali , non ha prodotto significativi mutamenti. Le forze confessionali hanno reagito a quel momento critico ripiegando su sé stesse, in attesa che l’onda passasse.

Animato trasversalmente da giovani senza solidi legami politici, quel moto non è riuscito a andare oltre la piazza: avesse anche fatto cadere il “ sistema” chi , in assenza di un attore politico strutturato capace di superare al suo interno le fratture confessionali, avrebbe sostituito i vecchi padri-padroni?

Le dinamiche regionali

Proprio il timore di finire fra gli esclusi di un nuovo, non troppo decifrabile ordine, di veder superato un meccanismo tanto vituperato quanto certo nei suoi consociativi e spartitori effetti collettivi, ha generato prima dubbi, poi disincantato distacco dai moti.

Sono ancora molti quelli che preferiscono rivolgersi al notabile confessionale di quartiere per ottenere un aiuto personale o comunitario. Dinamica stantia e clientelare ma pur sempre rassicurante: nel caso di bisogno, so a chi rivolgermi! è il retropensiero collettivo.

Si sarebbe potuto dire altrettanto di generici “giovani”, contattabili via social? Questa inerziale, e non di meno pervasiva, dimensione tradizionale del potere, pare aver generato la convinzione che il “ peggio” noto sia “meglio” dell’imprevedibile ignoto. Rassegnazione all’esistente che ha sopito, se non troncato, la rabbia montante.

Sul Libano pesano anche le recenti dinamiche tra Iran e Arabia Saudita. Dopo aver sponsorizzato a lungo l’opposizione a Hezbollah, i sauditi hanno preso atto della difficoltà di mettere fuori gioco, o comunque, ridurre l’influenza iraniana nel paese, favorita dall’alleanza non solo politica, ma anche ideologica e religiosa tra il Partito di Dio e gli eredi di Khomeini. Il sempre problematico rapporto tra Riad e Teheran è ora mirato a trovare comuni soluzioni nell’area del Golfo.

Così, il regno guidato da Bin Salman si è progressivamente disimpegnato dal Libano, smettendo di investire e concedere aiuti, scelta che ne ha accelerato la crisi economica e sociale , anche se il vuoto in campo sunnita è stato, in parte, colmato dall’attivismo della Turchia di Erdogan.

Persino Francia e Stati Uniti, che guardano al Libano come tassello non trascurabile della loro politica mediorientale, incontrano difficoltà a trovare interlocutori capaci di sostenere i loro interessi nell’area.

Il paese dei Cedri pare così assuefarsi a un vuoto di potere sin troppo pieno, quasi a confermare che la sua indubbia originalità, legata alla storia, si rivela anche nel costeggiare i sentieri della possibile rovina.

 

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