«Sono sempre stato un convinto sostenitore della democrazia liberale e mi sono immerso fin dall'adolescenza nei suoi testi classici. Ho protetto i tribunali, ma ritenevo che per preservare l'equilibrio di Montesquieu tra i tre rami del governo fossero necessarie delle riforme in Israele».

Nell’autobiografia del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu - Bibi, la mia storia, pubblicato sia in ebraico che in inglese lo scorso novembre – il leader della destra israeliana teorizza in questo e altri passaggi il braccio di ferro con la Corte Suprema che in queste settimane sta andando in scena nello stato ebraico. Materializzandosi con la proposta di riforma del nuovo governo, che indebolirebbe radicalmente i giudici rispetto al braccio legislativo, e la risposta delle opposizioni, con le grandi manifestazioni di Tel Aviv e delle altre città del paese.

Nel libro Netanyahu dedica un intero capitolo intitolato «Portatemi la testa di Bibi» a quelle che ritiene essere le persecuzioni contro di lui da parte del sistema giudiziario, grazie agli assist forniti dalla stampa «dominata» dalla sinistra.

«Quando ho sottolineato alcuni dei più gravi abusi dello stato di diritto nei confronti miei e di altri, sono stato accusato di fare terra bruciata intorno a legalità e democrazia. Sono stato dipinto come un becero potentato della destra votato a distruggere le fondamenta della democrazia israeliana. Niente è più lontano dalla verità» scrive.

Tandem con l’ultradestra

Secondo Netanyahu il vecchio establishment della sinistra, per quanto sia da anni relegato ai margini dell’agone politico, rimane radicato nelle istituzioni e nelle burocrazie statali, comportandosi come una sorta di stato profondo. L’Alta corte viene in questo senso concepita come una casamatta dell’Ancien Régime, intenta, insieme ad altre branche del sistema giudiziario, a mettere i bastoni fra le ruote ai governi conservatori.

Nel nuovo esecutivo, che per costruire una maggioranza ha dovuto includere gli hooligan e i pregiudicati dell’estrema destra, Netanyahu trova facilmente sponda negli alleati. I suprematisti di Potere Ebraico e Sionismo Religioso considerano l’Alta corte uno scomodo garante di ultima istanza dei diritti dei palestinesi, che vi ricorrono per tentare di sventare in extremis confische di terre, demolizioni di case e altre forme di discriminazione. E hanno quindi in comune con lui l’interesse di indebolirla. Da qui le proposte di riforma, delineate a inizio mese dal ministro della Giustizia Yarin Levin.

Clausola di annullamento

Al centro dell’iniziativa contro la Corte Suprema c’è la override clause (clausola di annullamento). In sostanza vuol dire che il parlamento, con una maggioranza semplice di 61 parlamentari su 120, può ribaltare le decisioni della Corte suprema.

Mettiamo caso per assurdo che la maggioranza voti una legge per cui donne e uomini debbano venire separati nelle strutture pubbliche, per ragioni religiose. E che la Corte Suprema la bocci in quanto contraddittoria rispetto alle leggi fondamentali – le carte fondative che in Israele fanno le veci della costituzione e sanciscono i diritti dei cittadini. Con la nuova riforma, il governo avrebbe gioco facile a scavalcare l’intervento della corte ed imporre le nuove norme di fatto “incostituzionali”.

Nel caso reale di Aryeh Deri, il leader ultraortodosso costretto a recedere dalle nomine di ministro dell’Interno e della Salute a causa delle condanne definitive a suo carico, potrebbe ignorare la protesta dei giudici secondo cui queste violavano la clausola di “ragionevolezza”. Fra le altre misure proposte c’è poi quella di rafforzare l’elemento politico nel hava'ada livchirat shoftim, l’organo responsabile della selezione dei giudici.

Secondo i critici questi passi comprometterebbero la regola sulla separazione dei poteri di Montesquieu, cardine delle democrazie. Nelle parole del suo libro Lo Spirito delle Leggi il pensatore francese affermava: «Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, e lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di giudicare i delitti o le controversie tra i privati». Senza l’indipendenza della magistratura, insomma, si rischia la tirannia della maggioranza.

Giustizia e potere

In Bibi, la mia storia Netanyahu ribadisce la sua teoria della pace attraverso la forza. Cioè la convinzione che Israele non debba illudersi di stringere rapporti con i vicini arabi attraverso concessioni che soddisfino una loro sete di giustizia, ma debba piuttosto affermarsi sul piano tecnologico, politico e militare al punto da risultare un partner imprescindibile anche per gli avversari storici. Una strategia la cui efficacia descrive come comprovata nel capitolo che racconta gli accordi di Abramo.

Di simile segno è la sua visione per certi versi Hobbesiana dei rapporti fra gli individui e per esteso fra i paesi, in particolare nelle zone del mondo dove scarseggia la democrazia. In fin dei conti, scrive nel libro, ai fini della sopravvivenza il potere conta molto più dei principi di giustizia o ragione. Il potente prevarrà sul debole anche se è dalla parte del torto – una chiave di lettura che simile a quella della corrente cosiddetta realista nella disciplina delle relazioni internazionali.

Scrive Netanyahu: «Il potere ha la sfortunata qualità di non essere limitato alle persone moralmente superiori e ben intenzionate. Se le forze maligne ne accumulano a sufficienza e hanno la volontà di usarlo, supereranno le forze del bene meno armate, soprattutto se i buoni non hanno la tenacia di combattere. Essere un popolo morale non vi salverà dalla conquista e dalla carneficina, che è stata la storia del popolo ebraico per duemila anni».

Proprio dalla storia dell’esilio ebraico Netanyahu trae le sue fosche conclusioni. «Essendo vittime perfette che non facevano del male a nessuno, eravamo perfettamente morali. Essendo totalmente impotenti, siamo stati condotti una volta dopo l’altra al massacro», scrive. E ancora: «L'ascesa del sionismo doveva correggere questo difetto dando al popolo ebraico il potere di difendersi. Rafforzare questa capacità è stata la missione centrale dei miei anni di mandato». Nel conflitto coi suoi nemici, sembra dire Netanyahu, Israele non può permettersi di lasciarsi inibire da troppe inibizioni morali.

Stampa sotto attacco

Mentre va in scena il conflitto con l’Alta corte, una levata di scudi interessa anche il mondo dell’informazione. Il nuovo governo si ripropone infatti di chiudere Kan, l’emittente radiofonica e televisiva pubblica di Israele, con il suo relativo organismo di controllo, e di crearne uno alternativo per i canali commerciali.

Mentre l’ex direttore di Israel Haiom, il giornale lanciato nel 2007 da Sheldon Adelson, il tycoon americano scomparso nel 2021 per sostenere la carriera politica di Benjamin Netanyahu, è stato eletto deputato e promette di proibire la pubblicazione di qualsiasi conversazione registrata. Mosse che leggendo Bibi, la mia storia sanno di vendetta contro un settore che Netanyahu ha sempre vissuto come ostile.

© Riproduzione riservata