La settimana scorsa il membro del partito religioso Otzma yehudit (Potere ebraico) parte della coalizione di governo presieduto da Benjamin Netanyahu, Zvika Fogel ha chiesto l’arresto dei leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Ganz per i loro ripetuti richiami alla piazza contro un governo che sta minacciando l’indipendenza della magistratura e della Corte suprema seguendo uno spartito che ormai abbiamo imparato a conoscere a diverse latitudini.

Come non bastasse, il deputato del Likud, il partito del Premier, Ariel Kallner ha chiesto l’accusa per sedizione per l’ex parlamentare della formazione di estrema sinistra Meretz Yai Golan, che ha invocato scioperi e un’opposizione civile su larga scala per fermare il progetto di legge annunciato dal ministro della Giustizia Levin. Forme di protesta certo radicali, ma del tutto lecite in un quadro democratico.

Queste prese di posizione ci dicono anzitutto che Israele potrebbe essere il prossimo palcoscenico di quella più o meno strisciante guerra civile che sta segnando il modello democratico in tutti i continenti, sommandosi a Usa, Brasile e Perù, solo per restare agli eventi più recenti. Già diversi gli episodi di violenza, o mancata tale per pura coincidenza, denunciati da esponenti politici o semplici cittadini.

Le dichiarazioni ci dicono, però, anche della strategia che questa destra regressiva e identitaria sta utilizzando per legittimare la propria azione e reprimere l’opposizione. Come da scuola, ci si appella all’aspetto puramente formale della democrazia, per cui chi vince le elezioni ha diritto di governare. Principio ribadito anche dallo stesso Netanyahu nel suo discorso di insediamento il 29 dicembre.

Partendo da qui, l’accusa al governo di essere antidemocratico si ribalta su chi l’ha pronunciata, in quanto non rispetta l’esito elettorale. I centomila radunati in piazza della Bima, luogo simbolo delle manifestazioni israeliane, sabato 14 gennaio e in altre città del paese per protestare contro il governo? Esattamente come i bolsonaristi che hanno aggredito il parlamento brasiliano o i trumpisti che hanno assaltato Capitol Hill. Incapaci gli uni e incapaci gli altri di riconoscere il risultato delle elezioni.

Il problema è che, oltre la forma, esiste il contenuto e qui la similitudine costruita a tavolino frana inesorabilmente. Da una parte abbiamo un fronte, i manifestanti di Tel Aviv e affini in ogni Paese, che protesta in difesa della separazione dei poteri e del rispetto dei diritti individuali alla base delle democrazie moderne, dall’altro chi pretende di scavalcarli in nome di una dittatura della maggioranza che consegnerebbe nelle mani di chi ha vinto le elezioni un potere illimitato.

Due traiettorie diametralmente opposte e inassimilabili. Lo schema è sempre quello di mussoliniana memoria: nessun colpo di Stato, ma, anche attraverso la pressione della violenza, svuotare la democrazia dall’interno, sfruttando le sue stesse procedure per legittimarsi. La distanza, seguendo il vocabolario di Viktor Orban, vero Deus ex machina di questa guerra civile strisciante già denunciata anni fa da Emmanuel Macron, è quella fra un sistema liberale ed uno illiberale.

Ci sono Paesi in cui gli apparati dello stato sembrano essere riusciti a reagire di fronte a questo schema che replica la marcia su Roma di un secolo fa. Parrebbero così Usa e Brasile, ma tutto è in corso, e altri che hanno subito un’involuzione democratica che sa tanto di inversione di sistema. Si veda Ungheria e Polonia. Che questo scontro sia arrivato fino in Israele, democrazia consapevole e matura fin dal suo insediamento (e qui non c’entra nulla di nulla l’annosa questione palestinese a cui ci richiama su queste pagine anche Roberta De Monticelli) ci dice che nessuno è al sicuro, nemmeno i sistemi democratici più consolidati. È chiaro che ogni Paese che si aggrega all’uno o all’altro fronte lo rafforza, segnando un punto in questo scontro che appare sempre più globale.

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