Lo scorso 19 febbraio l'Unione europea e il Ruanda hanno siglato il «Memorandum d'intesa sulle catene del valore delle materie prime sostenibili». L’accordo, sul sito ufficiale della Ue definito «importante», è stato firmato dal commissario per i Partenariati internazionali, Jutta Urpilainen, e il ministro degli Affari esteri del Ruanda, Vincent Biruta al fine di «rafforzare il ruolo del Ruanda nella promozione dello sviluppo sostenibile e delle catene di valore resilienti in tutta l'Africa» e prevede cinque aree di collaborazione:

  1. integrazione delle catene di valore delle materie prime sostenibili;
  2. cooperazione per una produzione sostenibile e responsabile che preveda due diligence e tracciabilità e lotta al traffico illegale di materie prime;
  3. mobilitazione dei finanziamenti;
  4. ricerca e innovazione;
  5. formazione e sviluppo delle competenze relative alla catena di valore delle materie prime critiche e strategiche.

«Il Ruanda – si legge nel sito - è uno dei principali attori globali nel settore del tantalio e produce oro, stagno, tungsteno e niobio» oltre a disporre di «litio e terre rare». Secondo quanto indicato dall’Ue, l’intesa contribuirà in modo sostanziale all’approvvigionamento di quelle materie prime critiche che costituiscono «una precondizione essenziale per raggiungere obiettivi di energia verde e pulita».

I punti critici

A leggerla così, sembrerebbe si tratti di una partnership sacrosanta fondata sul rispetto dei diritti fondamentali e dei principi di giustizia e trasparenza. Peccato che una buona fetta di quei minerali e di materie prime critiche a cui fa riferimento il memorandum, non giacciano in Ruanda ma nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), proprio in quelle aree a est (in particolare Kivu e Ituri) dove si consuma un gravissimo conflitto che ha creato profonde turbolenze diplomatiche tra i due paesi.

In alcune zone del Kivu del nord, per citare l’esempio più grave, truppe fedeli al Ruanda come le famigerate M23, hanno sconfinato da tempo e conquistato il pieno controllo. Le tensioni tra i due paesi hanno raggiunto il loro apice alla fine dell’anno scorso quando il presidente uscente (e poi riconfermato) Felix Tshisekedi, durante la campagna elettorale per il voto del 23 dicembre, dichiarò di voler entrare in guerra con il Ruanda se rieletto.

A partire dalle ore immediatamente successive alla sigla, quindi, l’accordo ha suscitato numerose critiche. Tshisekedi è stato il primo a tuonare. «È una provocazione di pessimo gusto - ha dichiarato –. Il Ruanda continua a nascondersi dietro l'M23, ed è per questo che ritengo impossibile parlare di pace con un gruppo terroristico».

Il presidente se l’è poi presa con l’Ue che ha definito complice del Ruanda nel «saccheggio del Congo» ed ha rincarato la dose sui rapporti tra i due paesi dei Grandi Laghi concludendo con un preoccupante «Se ci vorrà la guerra per avere la pace, sono pronto a farla».

«Come fa l’Unione Europea a firmare un accordo sulla sostenibilità e la tracciabilità di minerali strategici con un paese che non li produce ma li ottiene illegalmente da uno stato vicino?» ha dichiarato un fronte unito composto da varie realtà della società civile congolese che ha poi lanciato, come riporta l’Agenzia Fides, «un forte appello per il rispetto della legalità, secondo le norme di tracciabilità che l’Europa stessa si è data nel 2021».

Un gioco sporco

Che il Ruanda stia giocando sporco, soprattutto nei confronti della Rdc, è qualcosa che la Ue sa bene da tempo. Per bocca dell'Alto rappresentante Josep Borrell ha rilasciato una dichiarazione – ironicamente un paio di settimane dopo l’accordo - in cui condanna Kigali per l'escalation delle ostilità nella Repubblica Democratica del Congo.
Nella comunicazione, il capo della politica estera dell'Ue fa sapere che l’ Unione è «estremamente preoccupata per l'escalation di violenza nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo e per il peggioramento della situazione umanitaria che espone milioni di persone a violazioni dei diritti umani, tra cui sfollamento, privazioni e violenza di genere.

Il rafforzamento militare e l'uso di missili terra-aria e droni avanzati rappresentano un'escalation preoccupante che mette ulteriormente a rischio la situazione, in particolare nei dintorni di Sake e Goma».

Anche la chiesa cattolica congolese, soggetto determinante nella scena politica del grande paese africano e in tutta l’area, scende in campo decisamente contro il memorandum.

«La regione dei Grandi Laghi è in fiamme – spiega il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa sentito da Domani di passaggio a Roma – siamo vicini a uno stato di guerra tra Ruanda e Congo così come con altri stati come Uganda e Burundi e il motivo alla base è sempre lo stesso: lo sfruttamento delle risorse naturali. L’accordo tra Ue e Ruanda è inaccettabile, crea ulteriori tensioni. Il mio paese paga un prezzo alto per l’avidità di uomini al potere che sfruttano le ricchezze per sé e non per il popolo, ma i loro capi stanno in Europa, in America o in Cina».

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