Nonostante l’attenzione mediatica portata nella regione dalla vittoria agli Oscar di “No Other Land” – documentario che ha raccontato al mondo l’oppressione israeliana in Cisgiordania – la violenza in Masafer Yatta non accenna a fermarsi. A denunciarlo è Mediterranea Saving Humans, presente sul campo da gennaio con un progetto di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale ad opera dei coloni e delle autorità israeliane.

Oltre a farsi testimone dei soprusi nell'area, che si trova nella zona C secondo gli accordi di Oslo – cioè sotto controllo sia civile che militare dello stato israeliano – Mediterranea ha deciso di produrre un rapporto ufficiale che raccoglie numeri e dati relativi a quanto accade in Masafer Yatta.

«Il rapporto», spiega Denny Castiglione, uno dei coordinatori del progetto, «è fondamentale per raccontare come le forze di occupazione israeliane (Idf, polizia israeliana e coloni) stanno mettendo in atto un sistema di apartheid nei confronti di tutte e tutti i palestinesi».

Le violazioni

I dati raccolti dagli attivisti sul campo restituiscono un quadro allarmante: nei primi 129 giorni di monitoraggio, da gennaio a maggio, sono stati registrati 838 episodi. Una media di sette violazioni dei diritti umani al giorno. Le violazioni più frequenti sono le invasioni di proprietà privata. Più di tre volte al giorno i coloni invadono impunemente le terre palestinesi.

L’irruzione nello spazio privato comporta di per sé la creazione di un costante senso di insicurezza e terrore: «Se la pulizia etnica può essere ricondotta al disegno coloniale di appropriazione esclusiva della terra», si legge nel report, «il primo tassello del suo compimento va ricercato nell’invasione della proprietà privata […] un primo, decisivo passo per mettere in discussione il diritto della popolazione palestinese a restare sulla propria terra, minandone il senso di appartenenza».

In circa un caso su tre l’arrivo di un colono su un terreno di proprietà palestinese è seguito anche da altre violazioni, come intimidazioni, furti di bestiame, danneggiamento di beni materiali o aggressioni fisiche.

Collusione tra coloni ed esercito

Un altro aspetto emblematico è quello della connivenza tra coloni ed esercito, che si muovono in maniera coordinata durante gli attacchi ai villaggi. Una coordinazione osservata da Mediterranea nel villaggio di Jinba, assaltato da decine di coloni durante la notte del 29 marzo e poi di nuovo dall’esercito con un raid all’alba dello stesso giorno.

Secondo le testimonianze raccolte, alcune persone avrebbero addirittura preso parte a entrambi gli attacchi, prima in abiti civili e poi militari. Ancora una volta, per verificare questa complicità bisogna guardare i dati: solo nel 27 per cento dei casi in cui la polizia è intervenuta durante un’azione violenta ad opera dei coloni l’azione è stata interrotta.

In nessuno di questi, però, l’interruzione ha portato a un provvedimento contro i coloni. Mentre in quasi un terzo dei casi registrati, le autorità - che secondo il diritto internazionale dovrebbero garantire i diritti della popolazione occupata - sono intervenute a danno dei palestinesi che stavano subendo la violazione, per esempio arrestandoli.

Il lavoro di reportistica aiuta a vedere e considerare la situazione nel suo insieme, ben oltre e al di là dei singoli episodi che vengono ripresi dalla stampa: «Non serve essere degli esperti», commenta ancora Castiglione, «per vedere che quello che emerge dal nostro report è che il primo obiettivo è la cancellazione di tutti i villaggi nella regione Masafer Yatta, cacciando le persone e spingendole verso le grandi città in area A».

Il documento, disponibile sul sito di Mediterranea, verrà presentato al Senato nella giornata di oggi, 17 luglio, con l’obbiettivo di creare pressione sulle istituzioni: «Grazie all’intergruppo parlamentare presenteremo il lavoro al Senato, con l’obiettivo di arrivare anche al parlamento Europeo». Invocando una presa di responsabilità: «L’indifferenza delle istituzioni italiane ed europee è surreale».

Soprattutto considerato il fatto che l’Ue resta il primo partner commerciale di Israele: «Serve che tutta la società civile, ciascuno di noi», afferma Damiano censi, tra i coordinatori del progetto, «trovi la dignità di prendersi carico delle proprie responsabilità».

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