Ahmed Al-Sharaa è l’uomo delle prime volte. Il primo presidente siriano dopo la dinastia degli Assad, il primo a diventarlo con un passato dichiarato di jihadista. A settembre fu anche il primo presidente siriano a parlare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in 60 anni. E lunedì è stato il primo a recarsi in visita ufficiale alla Casa Bianca.

A Damasco ci sono voluti mesi per organizzare lo storico incontro tra al-Sharaa e Donald Trump. L’agenda è fitta – tra sanzioni economiche e lotta all’Isis – e non prevedeva incontri con la stampa, a dimostrazione di quanto sia importante non rilasciare dichiarazioni fuori posto a possibili domande scomode sul passato del presidente siriano.

Fino a un anno fa Al-Sharaa si faceva chiamare ancora al-Jolani, il suo nome di battaglia da combattente jihadista. Tanto che al-Sharaa aveva sulla sua testa una taglia da dieci milioni di dollari ed era inserito nella lista dei terroristi da parte del Pentagono per la sua affiliazione al Fronte al-Nusra, diventato poi Hay'at Tahrir al-Sham (Hts), che ha interrotto i legami con al Qaeda soltanto nel 2017 dopo aver disseminato terrore in Siria.

Ora le sanzioni contro Hts non ci sono più e la taglia sulla sua testa è stata cancellata. È il regalo ottenuto per aver deposto il regime di Bashar al-Assad e aver fatto uscire la Siria dall’influenza del Cremlino che aveva fatto sue le basi militari sul territorio. Un fattore cruciale per Washington, vista la centralità della Siria nello scacchiere mediorientale. E in questa finestra di transizione politica l’amministrazione Trump vuole portare la Siria dalla sua parte.

La visita

Al-Sharaa ha disperato bisogno di investimenti, denaro per le casse pubbliche e guadagnare una tale credibilità internazionale che possa far passare in secondo piano il suo passato. E Donald Trump è disposto a fornirgliela in cambio di fedeltà, che nel territorio si traduce anche nella sconfitta dei gruppi terroristi ancora attivi e nel tutelare gli interessi dell’alleato Stato ebraico.

A Washington, infatti, il presidente siriano ha firmato i documenti per entrare nella coalizione internazionale anti-Isis, guidata dagli Usa, e composta da altri 88 Stati. Il biglietto da visita che ha portato alla Casa Bianca è composto dai 71 arresti eseguiti dalle forze di polizia siriane contro cellule dell’Isis dopo che hanno sventato due attentati contro al-Sharaa.

Il tycoon aveva promesso anche di fare pressioni sul Congresso per abrogare il Caesar Syria Civilian Protection Act, che imponeva pesanti sanzioni contro Damasco. Per il momento ci ha pensato il segretario di Stato Marco Rubio che ha sospeso le sanzioni per 180 giorni ad eccezione delle «transazioni che coinvolgono i governi di Russia e Iran o il trasferimento di beni, tecnologie, software, fondi, finanziamenti o servizi di origine russa o iraniana».

Ma al paese servono anche ingenti investimenti, secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale la ricostruzione nel paese costerà 216 miliardi di dollari. Una cifra enorme e una grande opportunità di business per Trump, che aveva già incontrato al-Sharaa a Riad lo scorso maggio. Ma per ora c’è ancora qualche reticenza viste le preoccupazioni sulla tenuta dei diritti umani nel paese.

Nonostante le rassicurazioni, infatti, le minoranze etniche restano ancora un bersaglio. Da marzo, secondo una nuova inchiesta della Bbc, sarebbero stati uccisi 1400 alawiti (minoranza di cui fanno parte il 10 per cento dei siriani, tra cui anche la famiglia Assad) e circa duemila membri della comunità drusa.

Rapporti con il Cremlino

Sotto anonimato, alcuni funzionari statunitensi hanno detto alla stampa che l’amministrazione Trump starebbe pensando una presenza limitata in una base aerea vicino Damasco, per rafforzare la coalizione anti-Isis. Fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile, visto che Assad aveva trasformato la Siria in un paese vassallo della Russia, come ringraziamento al presidente russo Vladimir Putin per averlo tenuto al potere. «Stiamo cercando di ripristinare e ridefinire in modo nuovo la natura di queste relazioni affinché ci sia indipendenza per la Siria, una Siria sovrana», avevo detto al-Sharaa durante la sua prima visita al Cremlino – avvenuta il 15 ottobre scorso – dove ha incontrato il leader russo.

Il leader siriano aveva utilizzato un approccio pragmatico e da una parte aveva assicurato che Damasco avrebbe rispettato parte degli accordi presi in precedenza. E a Mosca interessa soprattutto continuare avere accesso al porto navale di Tartous e alla base aerea militare di Hmeimim. Per il momento la Russia rimane un paese chiave dato che assicura gran parte delle forniture di cibo e di energia a Damasco. E una pedina di scambio è la testa di Bashar al Assad. Al-Sharaa ha intenzione di chiedere l’estradizione per processarlo per crimini di guerra, ma a meno di colpi di scena non sarà mai consegnato dai russi.

Resta da capire quanto Damasco si allontanerà dalla sfera di influenza di Mosca e si avvicinerà a quella di Washington che sul piatto può fornire garanzie di sicurezza dall’esercito israeliano. E chissà, magari in un futuro non troppo lontano entrerà negli accordi di Abramo.

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