Un gruppo di collaboratori afghani che lavorava per il New York Times, insieme alle famiglie, è riuscito, dopo più di una settimana dalla conquista dei Talebani, a lasciare Kabul. Tuttavia, nessuno di loro è atterrato a New York o a Washington, ma questa mattina alle prime luci dell’alba all'aeroporto internazionale Benito Juárez di Città del Messico. La vicenda è stata riportata proprio sul New York Times, che ha messo in evidenza come gli Stati Uniti di Joe Biden, abbiano abbandonato i loro collaboratori in un momento di grande tragicità.

I funzionari messicani, a differenza delle loro controparti americane, sono stati in grado di ridurre la burocrazia del loro sistema di immigrazione per fornire rapidamente documenti che hanno permesso agli afghani di partire dall'aeroporto di Kabul e arrivare a Doha, in Qatar. Quei documenti assicuravano alle 24 famiglie afghane in fuga protezione umanitaria temporanea in Messico, in attesa di una risposta più duratura da Whashington. In Messico dovrebbero arrivare anche i giornalisti afghani del Wall Street Journal e del Washington Post.

Marcel Ebrard, il ministro degli Esteri messicano, ha dichiarato in un’intervista telefonica al New York Times che l’obiettivo del suo paese è promuovere la libertà di espressione e i diritti delle donne. 

Ebrard ha ripercorso lo storico impegno del Messico nell’accogliere chi cerca asilo politico: nel secolo scorso infatti nel paese sono arrivati prima gli ebrei in fuga dai tedeschi e poi i sudamericani perseguiti dai regimi dittatoriali. Non c’era tempo, né allora né oggi, per attivare canali ufficiali, l’importante è accoglierli tutti. Le 24 famiglie afghane sono arrivate a Città del Messico in autonomia, senza passare dunque dai corridoi umanitari.

Secondo quanto raccontato dal ministro degli Esteri messicano, infatti, poco prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul, Azam Ahmed, un ex capo degli uffici di Kabul e Messico del Times, gli ha inviato un messaggio su Whatsapp per chiedergli se il Messico era disposto ad accogliere i profughi. Dopo una prima risposta negativa, Ebrard ha contattato il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador per spiegargli la situazione. Obrador ha optato per eludere le prassi burocratiche e agire in fretta.

Il sistema Usa

Mentre gli Stati Uniti hanno intensificato i voli di evacuazione, il sistema di immigrazione americano ha reso lenta e complessa l’accoglienza dei profughi. Molti dei visti speciali che gli Stati Uniti hanno rilasciato ai giornalisti richiedono loro di trascorrere almeno un anno in un paese terzo, per avere una maggiore certezza in termini di rischio di infiltrazioni terroristiche, in particolare rispetto agli uomini afghani. Quindi i governi di tutto il mondo stanno intervenendo, come hanno fatto quando i giornalisti siriani sono fuggiti dalla guerra in Siria, la maggior dei quali rifugiati in Europa. Molti altri sono andati in Turchia, che si è anche adoperata per fornire asilo ai giornalisti afghani. Anche l'Uzbekistan ha accettato rifugiati e si è offerto come destinazione a breve termine per i giornalisti del Times.

L'intervento del Messico nel soccorrere e accogliere i collaboratori degli Stati Uniti a Kabul, mostra l’immagine di un paese che continua a rimanere diviso rispetto sul tema dell’immigrazione, nonostante un netto cambio di marcia, dopo l’elezione di Joe Biden. Ed è ironico che a farlo sia un paese terzo come il Messico, i cui cittadini cercano di arrivare negli Stati Uniti in cerca di una maggiore stabilità economica e, contemporaneamente, respinge i migranti nicaraguensi, in arrivo dall’America centrale. Ma su questo punto Ebrard sembra avere una spiegazione: al New York Times ha infatti affermato che il governo messicano distingue tra migranti economici e persone che cercano rifugio e asilo, come gli afghani. Benvenuti in Messico.

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