Lo scorso ottobre si è verificato un altro terremoto nell’industria dei semiconduttori. Con un comunicato del 10 ottobre il Bureau of industry and security (Bis) degli Stati Uniti ha annunciato un’estensione dei controlli alle esportazioni relative a microchip ad alta tecnologia verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Tale decisione sarà di grande rilevanza sia in termini di politica estera tra le due superpotenze che per altri paesi potenzialmente coinvolti, vista la grande rilevanza di tale industria dal punto di vista economico e strategico.

Le restrizioni riguardano i non-planar transistor, i chip di memoria dram e quelli nand di produzione e sviluppo statunitense, che saranno inclusi nella Commerce control list (Ccl) del Bureau. Oltre a questi materiali, la Ccl include gli equipaggiamenti e le apparecchiature per il test degli stessi. I produttori di tali microchip dovranno pertanto ottenere una licenza da parte dell’autorità per poter effettuare esportazioni verso la Cina.

Occorre notare come restrizioni alle esportazioni di tale rilievo da parte degli Stati Uniti nei confronti di Pechino non siano mai state messe in atto sin dal 1990, dai tempi di Tian ‘An Men, quando gli Usa hanno posto un embargo alle esportazioni di armamenti alla Rpc. Per la prima volta in oltre trent’anni, dunque, assistiamo a un’evoluzione di tale paradigma: microchip ad alta tecnologia per lo sviluppo di supercomputer e intelligenza artificiale sono considerati materiali adatti a uso sia civile che militare (cosiddetti materiali dual use).

Le conseguenze strategiche della loro esportazione sono paragonabili a quelle degli armamenti tradizionali, tali da giustificare l’introduzione di nuove restrizioni. Inoltre, una caratteristica della normativa statunitense in materia di controlli è l’extraterritorialità: anche operatori non statunitensi dovranno sottostare a tali regole se il materiale in loro possesso contiene tecnologia statunitense o è progettato sulla base di essa. Pertanto, anche aziende europee, giapponesi o coreane, pena il rischio di incorrere in pesanti sanzioni.

Tali restrizioni, dunque, si pongono in un quadro di decopuling economico tra Usa e Cina, ma sottintendono considerazioni di politica estera e sicurezza che esulano dalla mera competizione economica, e potrebbero influenzare le scelte di alcuni alleati di Washington.

Dall’economia alla sicurezza

Tensioni a livello di politica economica sono state sempre presenti tra i due giganti: sin dall’inizio degli anni Duemila, vi è stato un diffuso malcontento da parte di economisti americani verso quelle che ritenevano essere arbitrarie svalutazioni del Renmimbi volte ad accrescere il deficit americano di bilancia commerciale verso Pechino.

Più di recente, la competizione economica Usa-Cina ha visto un acuirsi di intensità con l’imposizione di barriere tariffarie da parte dell’amministrazione Trump (la cosiddetta “trade war”), ancora in vigore tra la due superpotenze.

Dal punto di vista strategico, sin dai tempi dell’amministrazione Obama, la regione dell’Asia orientale, e in particolare la Cina, rappresentano aree di interesse per la sicurezza e la difesa degli Stati Uniti. Pertanto, non dovrebbe stupire l’attenzione dell’amministrazione Biden nel voler contenere e ridimensionare le possibili capacità strategico-militari di quella che è ormai ritenuta la principale sfida all’ordine egemone statunitense nei prossimi anni.

Appare quindi chiaro come, dopo anni di costante crescita delle tensioni economiche e commerciali, gli Stati Uniti abbiano rivolto la propria attenzione a settori strategici di prim’ordine per quel che concerne l’innovazione tecnologica sia per scopi civili che militari. Tale attenzione è anche risultato delle mosse cinesi in tal senso: la Repubblica popolare già nel 2013, col suo programma “Made in China 2025”, mirava a raggiungere una maggiore indipendenza da nazioni estere in diversi settori, tra cui quello dei semiconduttori.  

È doveroso notare come all’International solid-state circuits conference del 2023, la conferenza ritenuta il principale terreno competitivo nel settore dei semiconduttori, la percentuale di manoscritti accettati da ricercatori cinesi abbia superato per la prima volta quella di ricercatori americani. Le nuove regole introdotte dal Dipartimento giungono a seguito di svariate iniziative economiche e fiscali dell’amministrazione Biden.

Nel febbraio 2021, a seguito della sua elezione, il neoeletto presidente aveva firmato un ordine esecutivo mirato alla creazione di catene di approvvigionamento nel settore delle terre rare, dei microchip e prodotti biomedici al di fuori della sfera di influenza di Pechino. Successivamente, l’adozione del Chips and Science Act, così come il lancio dell’Indo-Pacific economic framework (Ipef) puntano, in sintesi, a incentivare la costruzione di impianti manifatturieri su suolo statunitense, finanziarne la ricerca e lo sviluppo e creare un framework per mettere in sicurezza la supply chain dei microchip (tra i vari obiettivi programmatici dell’Ipef). Tuttavia, queste stesse regole hanno valicato il confine tra politiche funzionali alla competizione economica e necessità di ordine strategico.

Scopi militari

Il report Technology Trends 2019 sull’intelligenza artificiale (ia), pubblicato dalla World intellectual property organization, sottolinea come la Cina stia acquistando esponenzialmente peso sia nella pubblicazione di articoli scientifici che nelle richieste di deposito di brevetti nel campo dell’ia. Le applicazioni di tale tecnologia spaziano sia nell’ambito civile che in quello militare.

Dal tenore delle dichiarazioni del Bureau, obbiettivo primario delle restrizioni è quello di rallentare tali capacità di sviluppo cinesi, e mantenere il primato statunitense in tale ambito. In particolare, qualora la Cina riuscisse a colmare il gap di sviluppo di tali microchip, potrebbe nel giro di pochi anni sviluppare supercomputer e intelligenze artificiali in grado di aumentare in modo consistente le capacità tattiche dell’Esercito popolare di liberazione, e facilitare il coordinamento tra forze armate. Per dare conto della portata di tali innovazioni, esse aumenterebbero le probabilità di successo cinese in un eventuale sbarco anfibio nell’isola di Taiwan.

Fino al momento attuale, gran parte dello sviluppo cinese in tal senso è stato sicuramente facilitato dalla partecipazione di imprese e personale americano alla produzione di microchip in Cina, generando un trasferimento di know-how giudicato dal Bureau non più sostenibile dal punto di vista strategico. Inoltre, il Bureau ipotizza che tali tecnologie possano essere utilizzate anche a fini di sorveglianza, specie in aree della Cina quali il Tibet e lo Xinjiang in cui da diversi anni gli statunitensi lamentano violazioni di diritti umani.

Ciò non implica comunque l’impossibilità cinese di arrivare ad alti livelli di sviluppo tecnologico, e molto di questo dipenderà dalle capacità statunitensi di mantenere il proprio primato.

Considerazioni a parte meritano gli effetti che la menzionata extraterritorialità delle sanzioni avrà sugli alleati americani nell’Indo-Pacifico. Corea del Sud, Giappone e Taiwan sono stati sul cui territorio avvengono importanti fasi del processo produttivo di questo settore. Già l’Institute for new economic thinking metteva in guardia su come gli effetti del Chips Act fossero a detrimento per le imprese di questi paesi. Con le nuove restrizioni, sono ora le stesse imprese a rilasciare dichiarazioni alla stampa in cui esprimono le proprie perplessità sui loro piani futuri. Washington ha mandato un messaggio forte e chiaro; sta ai suoi alleati recepirlo o meno.

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