Nell’agosto 1971, quando il presidente Richard Nixon era ancora pienamente in carica e prossimo a essere rieletto trionfalmente l’anno successivo, è uscito il primo numero dell’Almanac of the American politics, un compendio esaustivo della politica americana che includeva un massiccio elenco di deputati, senatori e governatori, ognuno con il proprio profilo. Era inclusa anche un’analisi di tutti i distretti elettorali del Congresso, comprendente una dettagliata disamina delle caratteristiche demografiche e altri dati relativi alle elezioni presidenziali precedenti, inclusi i voti delle primarie del 1968.

Uno di questi autori era un giovane giornalista proveniente dalla facoltà di legge dell’università di Yale, ex stagista nell’ufficio del sindaco di Detroit Jerome Cavanagh. Si chiamava Michael Barone e all’epoca aveva 27 anni. Oggi, che l’Almanacco ha da poco festeggiato i cinquant’anni, Barone è il decano del giornalismo politico americano e scrive ogni settimana un commento sulle colonne del Washington Examiner, controparte conservatrice rispetto al più famoso Washington Post. Barone però è stato, avendo lui percorso vari passaggi di carriera, a partire dalla sua prima esperienza universitaria quale redattore del prestigioso Yale Law Journal.

All’epoca Barone è un convinto sostenitore dell’ala progressista del partito democratico tanto che nel 1972 alle presidenziali voterà il candidato liberal George McGovern, pesantemente sconfitto dal presidente in carica. A chi gli chiede perché poi negli anni successivi si è gradualmente spostato verso il conservatorismo lui risponde con una sola parola: Detroit. Negli anni del sindaco Cavanagh, che lui ancora oggi definisce una «figura affascinante», scopre le politiche sociali che sosteneva, di un ampio allargamento del welfare a favore delle minoranze etniche, tra cui gli afroamericani che nel giro di vent’anni, dal 1950 al 1970, erano passati dal 16 per cento al 43 per cento degli abitanti.

La maggiore città del Michigan all’epoca faceva parte del programma Model cities, lanciato nel 1966 dal presidente Lyndon Johnson per favorire il rinnovamento urbano abbinato alla programmazione di diversi progetti contro la povertà estrema. Barone dice che invece di migliorare «questi progetti hanno peggiorato» la qualità della vita di Detroit, favorendo la corruzione, l’aumento della criminalità e una fuga di gran parte della popolazione bianca della città.

La visione conservatrice di Barone però sull’immigrazione ha idee singolari: come lui, molti altri italoamericani sono gradualmente passati dal votare democratico al preferire le politiche del partito repubblicano, a mano a mano che il pregiudizio anti italiano di inizio secolo scemava e l’integrazione proseguiva. La sua idea è che succederà la stessa cosa con loro. Anche sulle prossime elezioni di midterm Barone ha idee molto precise. Lo abbiamo raggiunto per fargli alcune domande specifiche sulla strategia dei democratici per le prossime elezioni di metà mandato.

Negli ultimi ottant’anni le elezioni di midterm hanno sempre sfavorito il partito del presidente in carica, e nell’ultimo trentennio questo è stato particolarmente pesante e di fatto ha limitato l’agenda del presidente a due soli anni. C’è stata una sola eccezione, nel 2002, a pochi mesi dall’11 settembre. Questa volta Joe Biden riuscirà a salvarsi oppure farà peggio dei suoi predecessori?

Non ci sono indizi conclusivi in questo senso: potrà tenere duro oppure franare pesantemente. C’è un dato da considerare però: sia quando i repubblicani hanno guadagnato molti seggi nel 2010 e nel 2014, sia quando i democratici hanno vinto largamente nel 2006 e nel 2018, partivano da numeri molto inferiori rispetto ai repubblicani oggi, che hanno 212 seggi su 435 alla Camera e la metà esatta dei seggi al Senato. Quindi, a rigore, gli basta molto meno per prendere il controllo di entrambi i rami del Congresso.

Una delle operazioni attuate dagli strateghi democratici riguarda il distacco della popolarità di alcuni provvedimenti, come ad esempio la cancellazione del debito studentesco, dalla figura del presidente, puntando a farne un provvedimento del partito democratico. Sembra in tutto e per tutto un azzardo, data la contemporanea polarizzazione sulla leadership individuale. C’è una remota possibilità che questo possa pagare?

Difficile, anche perché il provvedimento in questione è un ordine esecutivo, ovverosia un’iniziativa individuale del presidente su cui il Congresso non ha mai votato e su cui, anzi, ci sono solidi argomenti legali contro e addirittura qualche ricorso pendente nelle Corti che potrebbe raggiungere la Corte Suprema nei prossimi mesi. Certo però ci sarà più “ticket splitting” rispetto alle ultime elezioni. Prendiamo l’Ohio: lì il governatore Mike DeWine, un conservatore moderato, sarà trionfalmente rieletto senza particolari difficoltà, mentre il candidato al Senato J.D. Vance, ultratrumpiano, è solo leggermente avanti ed è stato costretto a spendere molto contro il suo avversario moderato Tim Ryan. Lo stesso avverrà in California, dove i repubblicani, pur non avendo chance a livello statale, potrebbero recuperare qualche deputato alla Camera dei Rappresentanti data la radicalizzazione del partito democratico locale. Ciò detto, penso che sempre più candidati in futuro voteranno l’intero ticket dall’alto verso il basso.

Appare sempre più chiaro che tra i candidati democratici che se la caveranno meglio alle elezioni ci sono i moderati, come il già citato Tim Ryan o la governatrice del Kansas Laura Kelly, che potrebbe essere rieletta. Mentre i progressisti stanno per venire decimati, al netto di chi è stato eletto in un seggio sicuro. I democratici si sposteranno quindi nuovamente al centro?

Certamente, ma devono definire diversamente il centro, sennò il partito rischia di spezzarsi.

Joe Biden ha lasciato in sospeso la decisione sulla sua ricandidatura a dopo queste elezioni, probabilmente per decidere a seconda del risultato ottenuto. Cosa accadrebbe se decidesse di non fare un secondo mandato?

Ci saranno delle primarie molto combattute nel 2024, così come avvenuto nel 2020, con pochi candidati e nessuno con una netta posizione di vantaggio come quella di Hillary Clinton nel 2016. Non lo sarà nemmeno Kamala Harris, che nel 2020 ha dimostrato di essere una candidata disastrosa. Moltissimi gruppi di sostegno ai democratici, mi riferisco in particolare agli afroamericani, alle femministe e agli attivisti per i diritti della comunità Lgbtq+, spingeranno perché sia lei la candidata o almeno una persona che ritengono più rappresentativa. Non è detto però che sia Harris.

La figura pubblica dell’ex presidente Donald Trump attualmente è sempre di aiuto per le fortune del partito repubblicano oppure siamo arrivati a un punto dove a mobilitarsi sono i democratici che vogliono fermarlo usandolo come spauracchio nei confronti dell’elettorato moderato?

Facendo un attento bilancio dei pro e dei contro, ormai è più utile per i democratici nella gran parte dei seggi e dei segmenti di elettori. Penso quindi che ci sia una buona possibilità per i repubblicani di eleggere qualcun altro come candidato alle presidenziali: con ogni probabilità questa persona sarà il governatore della Florida Ron De Santis.

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