Il nuovo numero di Scenari (la pubblicazione geopolitica di Domani) di questa settimana è dedicato agli Stati Uniti, a pochi giorni dalle elezioni di metà mandato (o midterm) che si terranno l’8 novembre: un test decisivo per il presidente Joe Biden, ma che rappresenta anche le prove generali per il grande ritorno di Donald Trump. Gli approfondimenti inediti firmati da Gianluca Passarelli, Mattia Diletti, Gabriele Natalizia e tanti altri sono, come sempre, accompagnati dalle mappe di Fase2studio Appears, a cura di Daniele Dapiaggi e Bernardo Mannucci.

Cosa c’è nel nuovo numero

Luca Sebastiani offre il suo consueto quadro d’insieme, precisando che il prossimo 8 novembre i cittadini degli Stati Uniti si recheranno alle urne per eleggere i 435 seggi della Camera, 35 dei 100 posti nel Senato e 36 governatori dei 50 stati federati, oltre a diverse cariche locali. Alla Camera i repubblicani sembrano in vantaggio, mentre per il Senato la sfida è aperta. Sebastiani si sofferma sugli swing states, ovvero gli stati in bilico che potranno cambiare il volto del paese: dall’Arizona alla Pennsylvania, dal Nevada alla Florida.

Il politologo Gianluca Passarelli analizza la logica costituzionale dietro le elezioni di metà mandato: l’obiettivo è evitare che la concentrazione dei poteri diventi sistemica e inossidabile, dunque si dà agli elettori la possibilità, ogni quattro anni e due anni dopo le elezioni presidenziali, di mutare gli equilibri attraverso un voto che valuti in retrospettiva l’operato del presidente in carica. Passarelli spiega poi come gli effetti delle elezioni di midterm siano decisivi sia per i rapporti tra Congresso e parlamento, sia per le dinamiche tra il presidente e il suo partito che potrà infatti beneficiare dell’onda lunga della popolarità della Casa bianca, oppure essere travolto da un presidente inviso agli elettori.

Il ricercatore Mattia Diletti fa luce sui rischi della “polarizzazione”, fenomeno politico che caratterizza gli Stati Uniti da almeno trent’anni, ed evidenzia negli elettori radicali la chiave delle elezioni di midterm, rivelatesi spesso un terreno fertile per il voto anti sistema. 

I repubblicani non possono infatti rinunciare a una fetta di credenti “Maga” – dallo slogan trumpiano del 2016 “Make America great again – che delegittima i risultati elettorali del 2020: si presume anzi che alla Camera dei rappresentanti entreranno almeno 117 “election deniers” e sette “dubbiosi”, circa il 50 per cento del futuro gruppo parlamentare repubblicano. Ma anche Biden ha reagito con la sua battaglia polarizzante, definendo il partito repubblicano “semi-fascista” e i “Maga republicans” un pericolo per la democrazia.

(Icon Sportswire via AP Images)

Segue poi un’intervista di Matteo Muzio a Michael Barone, decano del giornalismo politico americano. Secondo Barone, la sorte di Joe Biden è segnata, ma Trump è ormai più utile ai dem per mobilitare gli elettori moderati che non al suo partito: «Penso quindi che ci sia una buona possibilità per i repubblicani di eleggere qualcun altro come candidato alle presidenziali: con ogni probabilità questa persona sarà il governatore della Florida Ron De Santis».

Il politologo Gabriele Natalizia sintetizza a seguire in un interrogativo il dilemma della democrazia americana: «Renderli simili o inoffensivi?», da cui anche il suo libro. La crescita dei regimi autoritari rimette infatti Washington di fronte alla storica questione sulle sue responsabilità civilizzatrici, laddove con “simili”, spiega Natalizia, «si intende una politica volta a favorire o a promuovere attivamente la democratizzazione degli altri paesi, mentre con “inoffensivi” si indica la ricerca del loro allineamento su questioni strategiche, quelle da cui dipende la sopravvivenza o meno dell’ordine a guida americana, senza badare troppo al loro assetto istituzionale interno». Se dopo la Guerra fredda la democratizzazione degli altri paesi è stata al centro della nuova grand strategy americana, lo spettro del declino dell’ordine a guida americana ha riportato nell’ultimo decennio gli Stati Uniti sulla difensiva.

La strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden pubblicata a ottobre conferma l’urgenza della Casa bianca di contenere una delle minacce attualmente fronteggiate da Washington, l’ascesa cinese. L’analista del Centro studi sulla Cina contemporanea Michelangelo Cocco parte da qui, sottolineando la crescente competizione per la leadership tecnologica contesa con il gigante asiatico, che intanto insegue l’autosufficienza scientifica e rimane in allerta sul supporto militare americano verso Taiwan.

(AP Photo/Susan Walsh)

Proseguendo sul tema, anche il diplomatico Giovanni Castellaneta commenta la National security strategy appena pubblicata da Washington. Identificando nella Cina di Xi Jinping l’unico rivale sistemico, la Casa Bianca sembra aver dimenticato la lezione di Kissinger: «Nel momento in cui si sta già fronteggiando un pericoloso nemico (ovvero la Russia)», sostiene Castellaneta, «aprire un altro fronte con un nemico potenzialmente ancor più temibile non sembra la decisione più saggia. A maggior ragione in un contesto che è sempre più teso e in cui i fronti aperti potrebbero essere ben più di due». E sarà appunto la politica estera il banco di prova più impegnativo nei prossimi due anni per Biden, in vista di una maggioranza politica indebolita dal post elezioni di midterm.

L’analista Emanuele Appolloni individua nella superiorità navale uno dei pilastri del primato internazionale degli Stati Uniti che, da oltre settant’anni, utilizzano il dominio marittimo come strumento per preservare il loro status di superpotenza e rispondere alle sfide globali. In questo senso si può dire che la marina statunitense è storicamente un indicatore della visione strategica del paese, e anch’essa conferma come oggi la priorità americana sia il contrasto di Pechino, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico.

Leonardo Delfanti sposta poi lo sguardo verso il dilemma della sinistra europea sulla guerra: al forum dei progressisti tenutosi ad Atene dal 21 al 23 ottobre le forze ecologiste e pacifiste europee si sono confrontate con le accuse di filoputinismo e con le difficoltà di articolare una posizione che non implichi una resa da parte dell’Ucraina aggredita. Ma quasi tutti i presenti sono d’accordo: serve una nuova strategia, capace di mostrare a tutti che un percorso per la pace sociale è possibile.

Infine, il politologo Antonio Missiroli riflette sulla riapertura del cantiere della difesa europea: dopo anni di tensione fra le due sponde dell’Atlantico, l’Alleanza atlantica e l’Unione europea hanno ritrovato una convergenza, ma l’Ue deve ora ravvivare l’idea del “pilastro” continentale per la sicurezza globale. «Paradossalmente», scrive Missiroli, «il futuro stesso della Nato potrebbe alla fine dipendere anche dalla capacità e dalla volontà degli europei di difendere l’Europa».

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