La maggioranza politica attuale alla Camera dei Rappresentanti non è più repubblicana, come stabilito dalla vittoria del partito di Donald Trump alle elezioni di metà mandato del novembre 2022. È diventata bipartisan: una sorta di “grande coalizione” tra le anime istituzionali dei due partiti. Che quindi lascia fuori le ali estreme.

Certo, dal punto di vista squisitamente giuridico di fatto non cambia nulla. Lo speaker rimane il repubblicano Mike Johnson e anche i capi delle varie commissioni rimarranno membri del partito repubblicano.

Però fino alla scadenza del mandato degli attuali deputati, di fatto le decisioni verranno prese di comune accordo tra i vertici istituzionali dei partiti. Ad aver contribuito a questo stato di cose sono stati vari fattori a partire dallo scorso ottobre.

Convergenza sull’Ucraina

A cominciare dal crescente potere di un manipolo di ipertrumpiani del Freedom Caucus, che il 3 ottobre scorso hanno sfiduciato l’allora speaker Kevin McCarthy per sostituirlo con l’attuale, credendo di aver trovato un fedelissimo dell’ex presidente più malleabile e questo ha accresciuto l’atteggiamento arrogante di esponenti come Marjorie Taylor Greene, Matt Gaetz e Thomas Massie, che hanno di volta in volta minacciato nuove mozioni qualora le mosse dello speaker fossero state sgradite alla loro corrente. Com’è stato ad esempio per l’approvazione degli aiuti all’Ucraina all’inizio del mese di aprile.

A quel punto la deputata Greene, forse l’esponente più colorita che si è fatta notare a inizio marzo per un buffo outfit da comizio di Trump indossato in occasione del discorso sullo Stato dell’Unione, ha rilanciato di nuovo l’ipotesi della sfiducia. Contando sul fatto che anche stavolta i dem avrebbero votato a favore.

Nelle settimane precedenti i retroscenisti politici della capitale americana però riferivano di trattative sottobanco tra lo staff di Johnson e la leadership democratica. L’accordo di cui si parlava era questo, grosso modo: aiuti all’Ucraina e Israele in cambio della sopravvivenza politica. Il 30 aprile, dopo giorni di silenzio, il leader di minoranza dem Hakeem Jeffries si è espresso contro la mozione di Greene.

La mozione sull’antisemitismo

Il primo maggio invece era stata presentata una mozione bipartisan che però appariva come controversa: una proposta per combattere l’antisemitismo attraverso l’adozione di una definizione stringente del fenomeno attraverso cui poter tagliare i fondi a quelle istituzioni accademiche che ne avessero fatto uso, ma anche ovviamente poter reprimere con decisione anche le manifestazioni filopalestinesi violente. Risultato: un voto di 320 deputati a 91 per approvare il disegno di legge. Meno controverso di quanto ci si potesse aspettare.

Si sono opposti 70 deputati dem progressisti, non solo la pattuglia della Squad guidata da Alexandria Ocasio Cortez, che criticano la possibilità che vengano tacciate di razzismo anche le critiche alle politiche israeliane ma anche 21 repubblicani ipertrumpiani, che invece affermano che va difesa la libertà di alcuni cristiani integralisti di poter affermare che i cristiani hanno ucciso Gesù. Ipotesi screditata dalla quasi totalità degli studiosi e dei teologi.

Anche stavolta dunque si è creata una coalizione informale di forze nominalmente contrapposte che però recuperano in piena campagna elettorale la voglia di collaborare insieme.

Non c’è solo un ritrovato spirito di cooperazione, ma anche la stanchezza dei partiti del sovrabbondante spazio sui media offerto ai loro esponenti più radicali che ha prodotto un potere eccessivo rispetto a quello che avrebbero dal punto di vista dei consensi nel paese, frutto avvelenato di una polarizzazione politica che va avanti da più di trent’anni.

Va detto però che questo potere non viene dal nulla: molti candidati di entrambi gli schieramenti hanno di volta in volta accontentato sempre di più le forze più radicali per la semplice ragione che sono coloro i quali partecipano più assiduamente a consultazioni interne come le primarie, sia per le cariche statali che per le presidenziali.

Fino a che uno come Donald Trump, che i commentatori, quando si candidò alle presidenziali del 2016, definirono sbrigativamente come “di estrema destra”, negando quindi che avesse delle possibilità concrete contro candidati più moderati come l’ex governatore della Florida Jeb Bush.

Non è andata così, ma la lezione sembra stia venendo imparata solo in queste settimane: l’estremismo non è più accontentabile. E questo spiega anche la posizione dei dem sulle manifestazioni pro Palestina nei campus universitaria: la simpatia che c’era per le iniziative del movimento Black Lives Matter, che hanno avuto risvolti violenti, sembrano un ricordo ormai molto lontano.

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