Il grande prato dove sorgeva l’accampamento pro Palestina dell’università Columbia dall’alto sembra una lunga tavola da scacchi. Nei quadranti che fino a martedì notte erano protetti dalle tende è rimasta l’erba verdeggiante e impeccabile che decora tutte le altre parti del campus dell’ateneo Ivy League che fu frequentato da Obama, Ruth Bader Ginsburg, e prima ancora presieduto da Dwight D. Eisenhower.

Ai lati però c’è il prato calpestato e ingiallito su cui per una decina di giorni gli studenti hanno bivaccato, ospitato seminari su Gaza, venerato il grande intellettuale palestinese Edward Said che fu professore a Columbia, o discettato su perché l’antisionismo non c’entri nulla con l’antisemitismo. Hanno cantato i famosi slogan contro Israele: dal fiume al mare, la Palestina sarà araba, non vogliamo i due stati, vogliamo tutto. Viva l’intifada. E sventolato bandiere palestinesi.

Se nell’epicentro della protesta ora regna la calma, è tutto il contrario nel resto del paese. Il diffondersi a macchia d’olio della protesta studentesca pro Palestina giovedì ha costretto perfino il presidente Joe Biden a intervenire. «Il dissenso è essenziale per la democrazia», ha detto alla Casa Bianca. «Ma il dissenso non deve mai portare al disordine».

Gli americani, ha detto, hanno «il diritto di protestare, ma non il diritto di creare il caos». Dietro al prato, dai piani alti dell’edificio della Columbia dedicato a Joseph Pulitzer, si guarda nella direzione di Amsterdam Avenue e si vede “Hamilton Hall”, il palazzo che da lunedì sera a martedì sera era stato occupato dai contestatori dopo il fallimento dei negoziati con l’amministrazione e l'escalation della protesta lanciata da una frangia degli studenti accampati.

I grandi striscioni che inneggiavano all’intifada esposti sulla facciata del palazzo ora sono stati rimossi, così come il grande cartello all’ingresso che dedicava l’edificio a Hind Rajab, una bambina di sei anni uccisa dall’esercito israeliano durante l’offensiva su Gaza (è vicino a 35.000 il conto delle vittime palestinesi). Il palazzo era già stato occupato nel 1968, in occasione della protesta contro la guerra in Vietnam e contro l’espansione di Columbia nel quartiere popolare di Harlem, con cui Columbia è divenuta uno maggiori proprietari di immobili di New York. Oggi il campus è presidiato dagli agenti del Nypd, invitati a rimanere dalla presidente dell’ateneo Minouche Shafik almeno fino al 17 maggio, due giorni dopo la grande cerimonia della graduation.

Ma alle spalle del palazzo Hamilton, fuori dai cancelli, alcuni studenti continuano la protesta usando gessi per scrivere “Polizia fuori dal nostro campus” a caratteri cubitali sull’asfalto del marciapiede. E soprattutto, nel resto del paese, la contestazione partita dalle tende di Columbia a metà aprile è in piena escalation.

Quasi quaranta atenei vivono mobilitazioni studentesche in solidarietà con la Palestina. Giovedì a finire sotto i riflettori è stata la prestigiosa University of California, a Los Angeles, dove agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nella tendopoli filopalestinese allestita dagli studenti, infrangendo la barriera protettiva ai margini dell’area occupata.

Gli studenti si sono scontrati con la polizia, che ha sgomberato l’accampamento alla fine di una giornata drammatica in cui gli accampati sono anche stati aggrediti da manifestanti filoisraeliani. Oltre 1.300 persone sono state arrestate in tutto il paese.

Immaginario parallelo

A Ucla, come in tanti altri atenei ispirati dall’accampamento di Columbia, l’amministrazione universitaria si trova di fronte al dilemma se proteggere a tutti i costi la libertà di espressione, oppure piegarsi alle pressioni di chi squalifica il linguaggio e i metodi dei contestatori come violenti. Al contrario di quanto accadeva negli anni della “cancel culture”, in questo caso sono perlopiù i conservatori a voler tracciare una linea rossa che delimiti la libertà di espressione, mentre i progressisti, sull’onda dell’indignazione per il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza, giustificano le forme talvolta estreme delle protesta.

Un elemento questo emerso nello stesso discorso di una portavoce della protesta di Columbia poche ore prima dell’intervento della polizia sul campus. «I miei compagni hanno rinominato questo palazzo, che sorge su terra rubata agli indigeni (americani) e che porta il nome di un colono bianco, dedicandolo a Hind Rajab», ha detto.

Dietro di lei, utilizzando una corda, i contestatori riempivano un cestino pieno di pizze, snack e viveri per i compagni barricati. Tre di loro lo issavano affacciandosi dal balcone dell’Hamilton, i volti completamente coperti da scialli e keffiyeh, sventolando una bandiera palestinese. Uno studente ebreo, davanti all’edificio, non poteva fare a meno di notare la ricercata somiglianza con le famose immagini dei militanti palestinesi alle Olimpiadi di Monaco nel 1972, nell’operazione in cui 11 israeliani rimasero uccisi.

Malgrado le condizioni più che tollerabili per gli studenti dell’occupazione, i quadri della protesta non resistevano alla tentazione di paragonare sé stessi gli abitanti di Gaza. «Hanno chiuso e bloccato il campus. Ci minacciano di sospensione. Ci impediscono di usare il bagno. Ci impediscono di ricevere cibo, ci impediscono di ricevere acqua. Questo è un assedio», ha scandito una leader della protesta, attaccando l’amministrazione definita “sionista” dell’università, prima dello sgombero.

L’imitazione con risvolti parodici del conflitto reale è stata una costante delle proteste filopalestinesi a Columbia. Basti pensare alle delegazioni che tornavano dai negoziati per il «rilascio» dei compagni sospesi e per il disinvestimento da Israele, ai paragoni fra le misure di sicurezza adottate sul campus e quelle della Palestina reale, e alle accuse alla dirigenza di violare principi umanitari come l’esercito israeliano a Gaza. «Volete che gli studenti muoiano di sete e fame, o si ammalino gravemente? Chiediamo aiuti umanitari di base», ha detto una portavoce davanti al palazzo occupato.

Gli ultimi discorsi prima dello sgombero di martedì contenevano in nuce le ragioni per cui la protesta è divenuta controversa, attirandosi accuse di essere violenta e antisemita. «Torneremo in tutta la Palestina. E credetemi, torneremo a milioni perché siamo palestinesi e ci riuniremo alla terra che ci è stata rubata», recitava uno dei comunicati letti da una manifestante alla stampa. «Stiamo dedicando la nostra vita (...) non solo per la fine del genocidio a Gaza, ma per la liberazione della Palestina dal fiume al mare».

Le condanne della politica

La retorica dei martiri, dell’intifada, del cancellare Israele, della demonizzazione dei “sionisti”, come se il movimento fosse ancora in fase costitutiva e non avesse realizzato il proprio obiettivo quasi 80 anni fa, ha provocato l’indignazione bipartisan della politica e di tanta parte del mondo ebraico. Lo Speaker della Camera dei rappresentanti, Mike Johnson, ha condannato duramente i dirigenti dell’ateneo durante una visita al campus, accusandoli di non avere fatto abbastanza per tutelare gli studenti ebrei.

Soltanto l’ala progressista del Partito democratico ha appoggiato gli studenti, con visite della deputata Ilhan Omar e della stessa Alexandria Ocasio-Cortez.

Gli studenti ebrei della protesta, da parte loro, hanno provato a confutare le accuse. Mercoledì 24 aprile sei o sette di loro hanno presieduto un seminario sull’antisemitismo spiegando come non esista sovrapposizone possibile fra antisionismo e antisemitismo e come, anzi, i valori dell’ebraismo siano in contraddizione con il sionismo. «Hai letto Lo Stato ebraico di Theodor Herzl, lo sai che è un libro colonialista?», ha chiesto Remi, una ventenne inglese di religione ebraica. Maya Passman, di madre libanese e di padre ebreo americano, ha detto «Dopo il 7 ottobre non ho parlato con mio padre per tre settimane».

Sam, un coetaneo americano, messo alle strette, ha ammesso che i messaggi del movimento potevano essere confezionati con più attenzione all’inizio della protesta. Ha detto che il coro «Non vogliamo i due stati, vogliamo il ’48» (cioè tutto il territorio della Palestina storica) reciterebbe piuttosto «Non vogliamo i due stati, ricordiamo il ’48». Ma è soltanto quello che gli piacerebbe sentire. Shay, un ventenne americano, ha raccontato le difficoltà attraversate in famiglia per mantenere la sua posizione antisraeliana. Un’altra contestatrice ebrea ha sostenuto che l’insulto “Tornatene in Polonia”, usato contro americani ebrei vicino al campus, non fosse antisemita: «È solo capitato che la persona a cui è stato rivolto fosse ebrea».

Jasmine Sarryeh-Jemersic, una trentaquattrenne studente giordano-americana di origini palestinesi, ha liquidato le critiche agli slogan dicendo che «chiamare la mia terra Palestina non minaccia certo una potenza nucleare come Israele, stabilita da oltre 70 anni. E non mi pare la parte israeliana sia più orientata a soluzioni ragionate».

Ma Arian Lehrer, trentasettenne studentessa israeliana di sinistra e sensibile alla causa palestinese, dice: «Spero imparino a difendere i diritti dei palestinesi senza disumanizzare e demonizzare la nostra identità».

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