La parola chiave è misgendering. Che sta a significare un atto linguistico discriminatorio sulla base dell’identità di genere, da cui deriva un’attribuzione diversa (femminile in luogo di maschile o viceversa) rispetto a quella che il soggetto etichettato percepisce di sé stesso, e che ha come referenti principali i soggetti transgender. Rispetto a essi, si ha misgendering quando si appella col pronome “lui” un soggetto che ha compiuto la transizione da maschile a femminile, e che per questo andrebbe correttamente appellato con “lei”. E il medesimo discorso vale per i soggetti che compiano la transizione da femminile a maschile, e che per questo devono essere appellati con “lui” e non con “lei”.

Sembra una mera questione di sfumature linguistiche e invece non lo è. Tanto più in contesti culturali, come quelli di matrice anglosassone, dove le questioni relative alle identità di genere e alle loro complessità sono prese molto sul serio e hanno dato luogo a standard di controllo estremamente esigenti. A tal punto da seminare di trappole nei sentieri del parlato quotidiano, specie per chi lavora in una professione delle comunicazioni di massa. Il rischio di compiere un atto linguistico etichettabile come discriminatorio incombe costantemente. 

Il rischio di essere terf

Ma a questo punto è proprio alla vicenda che bisogna fare riferimento, e alla testata che si è vista rivolgere l’accusa di misgendering. Tanto più che non si tratta di una testata qualsiasi, ma della Bbc.

L’emittente di stato britannica è stata al centro di una vasta ondata di proteste per un reportage pubblicato sul sito il 21 ottobre 2021, a proposito di un tema molto delicato come si legge dal titolo: “Le lesbiche che si sentono obbligate a fare sesso e avere relazioni con donne trans”. Si tratta di un lungo servizio in cui viene descritta una condizione di crescente disagio nella comunità lesbica britannica.

Tale disagio deriva dall’accusa di comportamenti discriminatori rivolta a tutte le donne di orientamento lesbico che rifiutino di intrattenere relazioni sessuali e sentimentali con donne trans. In particolare, lo spettro che aleggia è l’etichetta terf: acronimo che sta per trans-exclusionary radical feminist, femminista radicale trans-escludente. Un’etichetta che è l’anticamera per l’accusa di intolleranza e pregiudizio. Appiccicata addosso a donne che invece il pregiudizio continuano a subirlo.

Nel reportage firmato da Caroline Lowbridge viene presentata una carrellata di testimonianze e opinioni. E fra esse è menzionata quella di una donna che dichiara di essere stata «fisicamente obbligata a avere rapporti sessuali» («phisically forcing to have sex») da una donna trans dopo un appuntamento.

Della donna che dichiara di avere subìto violenza sessuale viene riportato il virgolettato, che qui vi riproduciamo nella forma editata da Bbc (con relative parentesi quadre, delle quali più avanti sarà chiaro il motivo) e da cui è scaturita l’ondata di commenti critici: «[Loro] hanno minacciato di denunciarmi come una terf, ciò che mi avrebbe fatto rischiare di perdere il lavoro, se mi fossi rifiutata di passare la notte con [loro]. Ero troppo giovane per discutere ed ero stata sottoposta al lavaggio del cervello dalla teoria queer, quindi [erano] una “donna” anche se ogni fibra del mio essere stava urlando per tutto il tempo, quindi ho accettato di andare a casa con [loro]. [Loro] hanno usato la forza fisica quando ho cambiato idea dopo aver visto il [loro] pene e mi hanno violentato».

Quella descritta è dunque una storia di violenza sessuale dal profilo straordinariamente complesso, tragicamente multidimensionale. Perché al già cruento aspetto fisico se ne associano almeno altri due. Il primo aspetto è di carattere psicologico, legato all’impossibilità di gestire la pressione di una situazione fortemente repulsiva per la donna che ha subito violenza, ma che al tempo stesso la rendeva incapace di sottrarsi. Il secondo aspetto è di carattere sociologico e si connette, sia pure in forma malintesa, al richiamo prescrittivo del gruppo di riferimento.

La donna che ha subito violenza afferma di aver temuto l’etichetta terf perché ne sarebbe derivato il rischio di perdere il lavoro. Ma è probabile che un timore non inferiore provenisse dal fatto che, da portatrice di un orientamento sessuale diverso rispetto all’eterosessualità istituzionalizzata, e tuttora oggetto di pregiudizio negativo, avrebbe rischiato di subire una condizione di stigmatizzazione (in quanto soggetto a sua volta portatore di pregiudizi sull’orientamento sessuale) all’interno della vasta comunità Lgbt. Che dal canto suo, come rivela il reportage della Bbc, è tutt’altro che solidale e si ritrova attraversata da fratture molto più profonde di quanto si possa immaginare dall’esterno.

They anziché him o her

Ma al di là delle considerazioni sui contenuti della vicenda emersa attraverso la testimonianza della donna, a scatenare la polemica contro il reportage di Bbc e a armare l’accusa di misgendering è l’utilizzo di quel ‘loro’, posto tra parentesi quadra, corrispondente ai pronomi inglesi ‘they’ e ‘them’.

Una formulazione che suona stridente al lettore italiano, poiché converte al plurale l’individuazione di un soggetto (l’abusante) che invece è singolare. Ma tale formulazione è ancora più controversa in ambito linguistico anglofono. Tanto da aver provocato, stando a quanto riferisce il Times che per primo ha reso nota la vicenda nei giorni scorsi, un aspro dibattito nella redazione di Bbc.

Tutto nasce dall’equivoco linguistico sul pronome usato, per indicare il soggetto transex che l’avrebbe violentata, dalla donna che ha rilasciato la testimonianza: “him” cioè “lui”, anziché “her” cioè “lei” come sarebbe stato corretto.

E molto potremmo speculare sui motivi che hanno indotto la donna, nel rievocare la violenza subita, a conferire un pronome maschile alla trans che l’ha violentata. Resta il fatto che, nei termini puramente redazionali con cui si confronta chi deve confezionare un contenuto informativo, questo atto linguistico contiene un misgendering.

Che nemmeno una circostanza massimamente criminale e odiosa come uno stupro è sufficiente a estinguere. Dunque, da professionisti della comunicazione, come ci si dovrebbe comportare al cospetto di un rompicapo linguistico del genere?

Per un verso, c’era la possibilità di lasciare il virgolettato così come era riportando fedelmente la versione della dichiarante. Che, in fondo, qualche diritto di etichettare l’atto subito come un’espressione di brutalità maschile e maschilista ce l’aveva. Per altro verso si poteva scegliere di evitare il misgendering insito nelle parole della dichiarante e correggere tutto gli him/lui in her/lei. Un intervento redazionale che avrebbe manipolato l’autenticità letterale dell’atto linguistico ma avrebbe salvaguardato l’elemento di political correctness.

Invece Bbc ha compiuto un’altra scelta rispetto alle due alternative, incomprensibilmente anodina. E ha espresso in terza plurale i pronomi personali. Con l’effetto di produrre un errore al quadrato, poiché cassando la versione “him” ha deciso di mettere fra parentesi l’autenticità letterale, ma al tempo stesso non utilizzando la versione “her" è caduta nella trappola del misgendering, esercitato per elusione anziché per errata attribuzione.

Da qui la lunga polemica, che ha costretto la redazione dell’emittente a pubblicare lo scorso 31 maggio una lunga nota di precisazione sulla vicenda. Documento che certamente farà storia, e che comunque sarà bene leggere e consultare attentamente da parte di tutte le agenzie che lavorano quotidianamente sul fronte della produzione di comunicazione e informazione.

Da questa storia qualche interrogativo sui cortocircuiti della political correctness dovrà comunque farlo scaturire. Perché, nella situazione linguistica che si era delineata, qualsiasi opzione (him, her o they/them) avrebbe incorporato l’errore e l’abuso. Rispetto alla verità storica o alla sensibilità sociologica. Forse è giunto il momento di negoziare e condividere le soluzioni linguistiche che ci evitino certe trappole.

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