Un incontro tra delegazioni governative - italiana e cinese - a Verona, la visita a Pechino prima del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e poi, probabilmente entro la fine dell’anno, di Giorgia Meloni. Si articola in queste tre tappe il percorso tracciato dall’esecutivo per ricucire lo strappo della presidente del Consiglio, che non ha rinnovato il memorandum sulla nuova via della Seta sottoscritto il 23 marzo 2019 dall’allora ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, e dal presidente della Commissione nazionale per le riforme e lo sviluppo, He Lifeng.

Dopo l’uscita da quella che ufficialmente si chiama Belt and Road Initiative (Bri) - l’ingresso dell’Italia nella quale Meloni aveva giudicato “un grosso errore” -, è arrivato il momento di ricalibrare i rapporti con Pechino. I principali partner e concorrenti continentali dell’Italia hanno già espresso il loro voto di fiducia per le prospettive di crescita della seconda economia globale (+5,2 per cento nel 2023, +5 per cento previsto quest’anno), non intaccato dalla politica di “de-risking” promossa dalla Commissione di Ursula von der Leyen. Ad esempio, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, è atteso il mese prossimo a Pechino con decine di imprenditori al seguito, dopo che nel 2023 la Germania ha investito in Cina 11,9 miliardi di dollari (+4,3 per cento) e il grande capitale teutonico (Vokswagen, Siemens, BASF, e le altre) ha raddoppiato la sua scommessa sulla Cina.

Passaggio delicato

Secondo Massimo Ambrosetti, l’uscita dal memorandum «non ha avuto alcun impatto» sulle relazioni bilaterali. In un’intervista pubblicata qualche giorno fa da South China Morning Post l’ambasciatore italiano a Pechino ha confermato gli inviti spediti a Mattarella e Meloni, interpretandoli come «una conferma delle relazioni positive tra Italia e Cina, altrimenti queste visite non sarebbero nell’agenda dei nostri leader». «C’è la volontà politica di mantenere le relazioni tra Cina e Italia a un livello molto strategico», ha aggiunto Ambrosetti.

Si parte da Verona, dove l’11 e il 12 aprile prossimo si riuniranno la Commissione economica mista Italia-Cina e un business forum con aziende di entrambi i paesi. La delegazione di Pechino sarà guidata dal ministro del commercio, Wang Wentao. Per l’Italia parteciperà il responsabile della politica estera e vice presidente del Consiglio, Antonio Tajani, attivissimo sul territorio in quanto principale sponsor di Flavio Tosi come candidato delle destre alla presidenza della regione Veneto nell’elezione dell’anno prossimo. L’obiettivo sarebbe quello di elaborare un piano d’azione triennale, che andrebbe in qualche modo a sostituire il memorandum. A differenza di quest’ultimo non rappresenterebbe un riconoscimento politico della strategia di politica estera lanciata da Xi Jinping nel 2013, ma dovrebbe allo stesso tempo convincere i cinesi che la Linea di Meloni non è quella di Washington, e contenere qualche impegno reciproco su commercio e investimenti.

Quello che è certo è che a Roma e Pechino viene considerato un passaggio delicato, sul quale viene mantenuto il massimo riserbo.

Mentre fino a poco tempo fa l’ingente disavanzo commerciale dell’Italia (28,4 miliardi di euro nel 2023: 47,5 miliardi di importazioni e 19,1 miliardi di export) veniva additato come il problema principale da Meloni e Tajani, ora la loro attenzione sembra essersi spostata sulla necessità di attirare investimenti esteri diretti cinesi in Italia.

«Per quanto riguarda le esportazioni italiane, nel 2023 la Cina ha rappresentato il primo mercato in Asia e il secondo tra i paesi extra-europei», ci dice Lorenzo Riccardi. Secondo il consigliere della Camera di commercio italiana in Cina, l’esecutivo vorrebbe in bilanciare gli investimenti bilaterali, «infatti in base ai dati più recenti di Istat e Agenzia ICE, persiste uno squilibrio tra lo stock di investimenti diretti esteri (Ide) italiani in Cina, cresciuti da 14,7 miliardi di euro nel 2021 a 15,5 miliardi di euro nel 2022 e quelli cinesi in Italia, passati nello stesso periodo da 2,1 a 2,2 miliardi di euro».

Non sarà facile, perché in questa fase la leadership di Pechino è impegnata ad attirare Ide in Cina, scesi nel 2023 al livello più basso degli ultimi 30 anni (33 miliardi di dollari).

Chery arriva nei concessionari

Tuttavia, se c’è un settore nel quale i cinesi - a causa delle restrizioni alle importazioni in arrivo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti - sono interessati a investire, è quello dell’automotive, nel quale l’offerta di Pechino potrebbe incrociare la domanda di Roma. Per l’Italia si tratterebbe di un investimento strategico, per fronteggiare la crisi del settore.

Nelle scorse settimane Adolfo Urso ha confermato che il governo Meloni sta cercando un secondo produttore da affiancare a Stellantis, che andrebbe convinta ad aumentare la produzione italiana a 1 milione di unità entro la fine del decennio. Il piano è di far fabbricare altre 300 mila macchine a un brand straniero, per raddoppiare la fiacca produzione del 2023 (800.000). A tal fine il ministro dell’industria ha incontrato i dirigenti di tre compagnie, delle quali non sono stati rivelati i nomi. Si è parlato di BYD, ma il direttore per l’Europa, Michael Shu, ha fatto sapere che è ancora troppo presto per decidere se, oltre a quello in costruzione Ungheria, la sua azienda avrà bisogno di un altro stabilimento. Poi di Chery - l’esportatore cinese numero uno per volumi - che sarebbe disposto sia a utilizzare una fabbrica già in funzione, sia a costruirne una nuova di zecca. Ma l’azienda di Wuhu - non particolarmente forte negli Ev - ha messo gli occhi sull’ex impianto Nissan di Barcellona. Sta di fatto che, entro la fine dell’anno, Chery inizierà a vendere le sue auto in decine di concessionari anche in Italia, che diventerà il suo secondo mercato europeo, dopo la Spagna.

Si pensa anche a Great Wall Motor, mentre per lo stabilimento torinese di Mirafiori si era vociferato di Leapmotor, un produttore di Hangzhou non esattamente di primo livello, di cui Stellantis ha acquisito il 20 per cento.

© Riproduzione riservata