Mykolaiv, cittadina sotto controllo ucraino, snodo strategico per avanzare verso il porto di Odessa e per questo contesa da Mosca. Dalla fine di febbraio è sotto costante attacco missilistico da parte dell'artiglieria russa. I segni dei bombardamenti sono ovunque: almeno due gli hotel distrutti, colpita l'università, il porto, zone commerciali, edifici pubblici e abitazioni.

Parte del centro è stato interdetto ed è transennato, controllato a vista dai militari dopo l'attacco missilistico del 29 marzo scorso che ha devastato il palazzo regionale del governo causando 37 morti. Oggi Mykolaiv è una città semi deserta, soprattutto nella zona sudorientale, il distretto di Korabelny che è l'aerea più colpita dall'artiglieria e dai missili russi.

Più della metà dei suoi abitanti è andata via, manca l'acqua potabile, molti dei negozi sono chiusi, soprattutto quelli che vendono beni superflui. Le pompe di benzina funzionano a intermittenza. Chi ha potuto se n'è già andato. Rimane chi non ha mezzi per andarsene, chi non vuole lasciare i propri affetti e chi non vuole darla vinta ai soldati di Mosca.

Il contrattacco

I russi a febbraio erano riusciti ad arrivare alle porte della città: nei piani del Cremlino Mykolaiv avrebbe dovuto essere la seconda capitale regionale, dopo Kherson, a cadere. Invece dopo sei mesi di combattimenti sono stati allontanati di una quarantina di chilometri e lunedì scorso, dopo settimane di preparazione e attacchi mirati a basi, depositi russi e infrastrutture, è partita la prima controffensiva ucraina. Obiettivo: Kherson.

Da giorni l’attacco procede nel silenzio stampa richiesto dalle autorità: poco si sa di quanto sta avvenendo sulla linea del fronte. Ed è presto per tracciare un qualsiasi bilancio. A Tavrij'ke, nell'oblast di Kherson, lo scorso 29 agosto i soldati e le soldatesse del battaglione 206 si preparavano per la battaglia.

Questa è la linea zero, costantemente bombardata dalle forze di Mosca. L'obbiettivo dei soldati del 206esimo è riconquistare insieme ad altre unità dell'esercito il villaggio di Pravdyne, situato a cinque chilometri di distanza. Gli avamposti ucraini, a poco meno di tre, sono anguste trincee di pochi metri scavate nella terra con le pale pieghevoli.

Scendendo, uno spazio coperto da tronchi di legno con i sacchi a pelo adagiati sul terreno. Poco distante quel che resta di un furgone, distrutto da un colpo di mortaio e che ha lasciato sul terreno tre vittime. Un gruppo di artiglieri è in attesa del via libera per sparare con un pezzo della contraerea utilizzato per il tiro indiretto. Venti colpi e poi devono spostarsi prima di essere individuati dai russi.

La resistenza della cultura

Chi non può spostarsi per sfuggire alle bombe è la città da cui è partito l’attacco. Mykolaiv è una delle località più bombardate d'Ucraina. I missili cadono quasi ogni giorno, decine nelle ultime ore. In ogni momento, come ora. Eppure, anche qui, come nel resto del paese, si continua a resistere. Usando non solo i fucili, ma anche la cultura.

Poco distante dal palazzo del governatore si trova l'ex teatro di arte drammatica russa. Oggi si chiama Teatro di arte drammatica ucraina e giovedì di sera ha riaperto per il primo spettacolo dopo sei mesi. «È il nostro modo di combattere anche sul piano culturale», dice il direttore artistico, Artiom Svytsoun. L'entrata principale del teatro è chiusa, si deve passare dal retro. Qui, sostano un gruppo di persone. Sono gli attori che tra poco andranno in scena. Nei camerini ci si trucca, si rassettano le acconciature, mentre le costumiste corrono da una parte all'altra portando gli abiti. Sarebbe tutto normale se non fossimo in una zona di guerra e se il teatro non fosse rimasto chiuso per sei mesi. La sala infatti non è quella di sempre da 450 posti, ma un rifugio sotterraneo con una capienza di una quarantina di persone, rinnovato grazie anche a dei fondi dell'Unione europea.

«Durante questi ultimi sei mesi le persone ne sentivano la mancanza, perché non succedeva niente sul fronte culturale, nessun evento», racconta Svytsoun. Tutti i locali erano chiusi perché era pericoloso creare assembramenti. E anche adesso è pericoloso, abbiamo sentito esplosioni anche durante l’ intervista. «Però voglio sottolineare che è necessario, adesso, riaprire. Gli psicologi dicono che non serve in questo momento, che quando finirà la guerra riapriremo tutto. Noi però viviamo qui e adesso, non domani, quello che sta avvenendo nel paese lo stiamo vivendo tutti insieme, come comunità. E dobbiamo supportare psicologicamente le persone che hanno perso la loro famiglia, i loro cari e che hanno subito dei traumi. Queste persone non hanno la possibilità di trasferirsi all'estero, sono rimaste nella loro città e noi dobbiamo aiutarle, dar loro la speranza che andrà tutto bene, che l'Ucraina vincerà, e se queste persone, tornando nelle loro case porteranno un poco di queste sensazioni, di questa atmosfera che cerchiamo di ricreare a teatro, per noi sarà già un grande traguardo».

Una sorta di arte-terapia, un modo per nutrire la mente e il cuore, per quanto possibile, in queste condizioni. Eduardo de Filippo disse una volta che il teatro è lo sforzo disperato che compie l'uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato.

Lo spettacolo

È giovedì sera e nel bunker, pieno di persone in attesa di questa prima dopo tanto silenzio, si spengono le luci. Inizia lo spettacolo, una commedia dal titolo “È tutto pagato”. È strano vedere le persone ridere in un simile contesto, ma il riprendersi la vita, in tutte le sue sfumature, assume senso in queste quattro mura abbellite da pitture che richiamano il teatro greco.

«Quando le persone vanno a teatro c'è un rituale magico: indossare l'abito da sera, le ragazze con i tacchi, l'acconciatura, portare i fiori... tutto questo non è più successo da sei mesi. La maggior parte di questa gente ha fatto volontariato in jeans e maglietta. E adesso abbiamo avuto nuovamente la sensazione di essere nel tempio dell'arte. Ci siamo riposati, ci siamo disconnessi dalla terribile realtà che c'è fuori. Abbiamo trovato nuova vitalità. In questo modo non viene reso vano tutto quello che abbiamo fatto. La stessa cosa vale anche per gli attori: quando l'attore vede che c'è lo spettatore in sala, che c'è qualcuno per cui esibirsi, avviene un'unione tra teatro, arte e pubblico», racconta Maryna Vasylyeva, la prima protagonista.

Suo marito sta combattendo per difendere il paese e lei, come tanti, non è rimasta per tutti questi mesi con le mani in mano. «Nel 2019, come volontaria del gruppo artistico, sono andata in prima linea nell'est. Per più di un mese insieme a colleghi che lavorano in altre istituzioni abbiamo tenuto concerti per i nostri soldati in prima linea. Ma poi è scoppiata la guerra in tutto il Paese, ed è arrivata anche qui nella mia città natale. Mio marito è un militare, abbiamo un bambino, e quindi siamo rimasti qui». Per Vasylyeva, c’è una differenza fondamentale con il tempo di pace. All’epoca, il successo erano «complimenti, i fiori, l'attenzione del pubblico». Oggi invece «la cosa più importante è sentirsi vicini. Noi e il pubblico abbiamo bisogno di questa medicina spirituale, perché il teatro guarisce l'anima. Persone che oggi sono disperate, persone che sono stanche della guerra, persone che non hanno più una casa peri i bombardamenti e sono dovute partire, persone che hanno perso i propri cari sentono che c’è speranza, che c’è la promessa di una vita pacifica e molto presto ci sarà la vittoria».

Il direttore Artiom Svytsoun indica una vetrina del piccolo museo che si trova al piano superiore dell'edificio. All'interno una bandiera ucraina firmata da tutto il personale del teatro, un elmetto preso a un soldato russo e delle foto di uomini e donne in divisa. «Alcuni membri della nostra compagnia oggi stanno combattendo al fronte», spiega. La cultura assume così un forte valore, diventando anche uno strumento di resistenza: la lingua russa, qui, non verrà mai più utilizzata per le rappresentazioni. La guerra, intanto, fuori da queste mura, continua.

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