Definiti da tempo la polveriera d’Europa, i Balcani continuano a preoccupare politici e analisti per la loro precaria stabilità e l’accidentato percorso verso l’integrazione europea. È più opportuno parlare di Balcani occidentali, perché quelli orientali, composti da Romania e Bulgaria, affrontano sfide diverse e sono già membri di Nato e Ue. Bucarest sta diventando un perno fondamentale dell’Alleanza sul confine orientale per almeno tre ragioni: il nuovo battle group Nato schierato dopo l’invasione russa, la presenza navale nel mar Nero e la delicata situazione in Moldavia, parzialmente occupata dai russi in Transnistria. La Bulgaria, invece, pur aderendo alla linea euro-atlantica sull’Ucraina con un governo europeista, fa i conti con una delle società più russofile in Europa, a causa dei legami slavi e ortodossi, ma anche del retaggio sovietico. Ne è prova l’alto tasso di infiltrazioni di spie e talpe russe tra i ranghi militari bulgari e nei servizi segreti, causa di numerose espulsioni negli ultimi anni di diplomatici dichiarati personae non gratae.

Le preoccupazioni croate

Tornando ai Balcani occidentali, il panorama è ancora più eterogeneo e complesso. Se da un lato la Slovenia è pienamente integrata nell’Ue e la Croazia aderirà all’Eurozona nel 2023, altri paesi come Serbia e Bosnia Erzegovina sono ancora in bilico tra occidente e Russia. I due momenti più significativi per la Nato sono avvenuti nel 2017, con l’ingresso del Montenegro, e nel 2020 per la Nord Macedonia. Il precedente per i Balcani occidentali risaliva al 2009, con l’entrata di Albania e Croazia. Ma sono soprattutto Lubiana e Zagabria che ci tengono a scrollarsi di dosso l’aggettivo balcanico, sinonimo di instabilità e arretratezza, definendosi spesso un paese “alpino” e uno “adriatico” nei fora internazionali.

Oltre al minacciato veto di Erdogan sull’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, ha fatto notizia anche la contrarietà del presidente croato Zoran Milanovic, giustificata non dal timore di un’escalation nucleare, bensì dal tentativo di mercanteggiare qualche privilegio per i cittadini croati di Bosnia in vista delle prossime elezioni. Sarà comunque il governo del premier Andrej Plenković a votare a favore dell’ingresso dei paesi scandinavi.

Assistiamo a tendenze ricorrenti nell’ultimo decennio, a partire dall’occupazione della Crimea e del Donbass da parte dei cosiddetti “omini verdi”, soldati russi senza insegne, che scatenò un conflitto fratricida nell’est dell’Ucraina. Accorsero numerosi volontari internazionali a sostegno delle due parti, tra cui combattenti croati di ideologia ustascia a favore degli ucraini e cetnici serbi con i separatisti russofili. Già il 2 dicembre 2014, pochi mesi dopo l’annessione illegale della penisola, il quotidiano croato Jutarnji List titolava in prima pagina: «Angela Merkel difende la Croazia da Putin e dalla Russia; un documento riservato rivela: Mosca e Berlino in guerra per i Balcani».

Il giornale progressista di Zagabria riportava indiscrezioni di Der Spiegel, secondo le quali un dossier sulla Serbia agitava la cancelleria tedesca. Il documento riservato descriveva il tentativo di Mosca di convincere Belgrado a interrompere il processo di adesione all’Unione europea. Già nel 2014 si parlava di forniture energetiche a prezzi di favore, ottenute oggi grazie alla neutralità del governo Vučić sulla guerra in Ucraina, ma anche la cooperazione militare con l’esercitazione congiunta “Fratellanza slava”. Il giornale croato citava anche il Financial Times, secondo cui la Russia avrebbe messo in atto operazioni di propaganda panslava e sui serbi di Bosnia, ma anche finanziarie e persino corruttive, in una strategia per aumentare l’influenza sui Balcani occidentali.

In Croazia non è mai calata l’attenzione sulla partita egemonica da parte di grandi e medie potenze, Stati Uniti, Germania, Russia e Turchia in primis. Ma il rapporto speciale tra Croazia e Germania risale a trent’anni fa.

Quando Zagabria proclamò l’indipendenza ebbe un solo amico influente in Europa: Berlino. La caduta della città di Vukovar, vittima di un terribile assedio che ricorda quello di Mariupol, diede a Helmut Kohl un valido argomento per convincere gli alleati al riconoscimento del paese. I croati non l’hanno dimenticato. Altri paesi europei ebbero un atteggiamento più ondivago.

La Francia, durante l’offensiva Nato per fermare i massacri in Kosovo, insistette affinché non venissero colpite infrastrutture vitali per l’economia della Serbia e, in almeno due occasioni, avvisò il governo di Belgrado degli imminenti attacchi aerei. Il maggiore francese Pierre Bunel venne scoperto a passare informazioni sui futuri bombardamenti a un colonnello dell’armata popolare jugoslava e condannato. Il maggiore francese Hervé Gourmelon fece una soffiata al leader serbo-bosniaco Karadžić per metterlo in fuga. Come ieri nei Balcani, anche oggi sull’Ucraina il governo di Parigi si atteggia a mediatore e paciere con un atteggiamento ambiguo. Mentre dall’Eliseo arrivano gli appelli del presidente Macron a non umiliare la Russia di Putin, gli obici semoventi Caesar forniti dalla Francia agli ucraini martellano le forze russe nel Donbass.

Il fallito golpe russo in Montenegro

I momenti di maggiore tensione nei Balcani si ebbero alla vigilia dell’ingresso del Montenegro nella Nato. L’Alleanza atlantica decise di rinviare la procedura al 2015 per il sospetto di infiltrazioni russe nell’Agenzia di sicurezza nazionale montenegrina, in cui si stimava vi fossero ancora tra i 25 e i 50 agenti legati a Mosca e ai circoli sovietici.

Nel 2017 si ironizzava sull’adesione del piccolo paese all’Alleanza, ricordando che paradossalmente la polizia di New York fosse diciassette volte più numerosa dell’esercito di Podgorica e che da sola riceve un budget annuale che equivale a metà del Pil montenegrino. In realtà, la funzione strategica per la Nato è quella di non lasciare vuoti nei Balcani, che verrebbero sfruttati dalla Russia, interessata all’accesso al Mediterraneo. Infatti, Mosca era interessata alla possibilità di aprire una base navale per la sua flotta nel porto di Bar (Antìvari), che sarebbe stata di ancora maggior valore per la posizione nell’Adriatico rispetto a quella siriana di Tartus e agli attracchi in Cirenaica, ma nel 2013 il governo montenegrino rifiutò. Così la Russia mise in moto un tentativo di golpe il 16 ottobre 2016, il giorno delle elezioni parlamentari.

Il complotto fu sventato dai servizi di Podgorica grazie a una soffiata, ma prevedeva un attacco armato al parlamento e l’assassinio del primo ministro Milo Đukanović. Furono trovate armi e arrestati venti sospettati, tra cui nazionalisti serbi e cittadini russi. Nel 2019 il tribunale di Podgorica ne condannò tredici per il tentato colpo di stato con accuse di terrorismo ed eversione, tra di loro c’erano due agenti dell’intelligence militare russa Gru, processati in absentia e ritenuti i coordinatori del piano, ma anche l’ex generale della gendarmeria serba Bratislav Dikić. Nel 2021, tuttavia, un tribunale montenegrino annullò la sentenza di prima istanza per vizi procedurali e dispose un nuovo processo, ancora in corso.

I servizi di sicurezza serbi spiavano i due agenti del Gru, come mostra una foto dei due in un parco di Belgrado scattata pochi giorni prima del golpe, pubblicata dal sito investigativo Bellingcat. Le due spie facevano parte dell’Unità 29155, incaricata di operazioni coperte di destabilizzazione, e furono avvistate in Georgia, Bulgaria, Grecia, Moldavia e in Ucraina, a Odessa.

Sempre nel 2017, si verificarono violenti scontri in Nord Macedonia con l’irruzione di manifestanti dell’opposizione nazionalista nel parlamento di Skopje, nel tentativo di impedire una coalizione tra i socialdemocratici del premier Zoran Zaev e la minoranza albanofona. Zaev aveva fissato come obiettivi l’adesione alla Nato e all’Unione europea, ma la Russia ha tentato di impedire tale percorso soffiando sulle divisioni etniche del paese e con la corruzione.

La posizione serba

Oggi i due principali campi di sfida della Russia nei Balcani sono la Serbia e la Bosnia. Infatti, Belgrado non si unì all’occidente nelle sanzioni contro Mosca per l’occupazione della Crimea, né in quelle per l’invasione del 24 febbraio, e dal 2013 partecipa come osservatore all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), l’alleanza militare speculare alla Nato ed erede del Patto di Varsavia.

La Serbia, tuttavia, è costretta a riconoscere l’integrità territoriale ucraina, Crimea compresa, per evidenti ragioni di coerenza sulla questione kosovara. In Bosnia, a capo della presidenza tripartita c’è il nazionalista serbo Milorad Dodik, uomo forte della Repuplika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina. Dodik non ha mai nascosto i suoi legami con i vertici di Mosca e i suoi piani di indipendenza per la Republika Srpska. Non è un caso che a marzo 2021 l’ambasciatore russo a Sarajevo abbia minacciato uno scenario ucraino nel caso la Bosnia aderisse alla Nato, sapendo di poter contare sulla polizia militarizzata di Dodik per accendere la miccia di un conflitto che continua a covare sotto le ceneri degli accordi di Dayton.

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