Per i network televisivi americani è abbastanza normale ingaggiare ex politici come analisti. Ancor meglio se ex portavoce della Casa Bianca o altre figure della comunicazione. Sono molto ambiti comunque anche i senatori e i deputati e gli altri membri dello staff presidenziale.

Sembrava assolutamente nella norma che Ronna McDaniel Romney, appena lasciato l’incarico quale presidente del Comitato nazionale del partito repubblicano, finisse per firmare un contratto con la Nbc come commentatrice di attualità. Certo, la cifra di 300mila dollari annui poteva far storcere il naso a qualcuno, ma sembrava potesse provocare non più di una polemica passeggera.

Invece c’è stata una rivolta coordinata di quasi tutti i membri della redazione, culminata con un’uscita pubblica di uno dei volti più famosi, Rachel Maddow. Due giorni dopo, con una sola partecipazione di McDaniel al programma Meet the Press, è arrivato il licenziamento, a cui seguirà un più che probabile strascico legale.

A provocare la reazione unanime è stato anche il ricordo del recente passato: quando era a capo del partito, McDaniel guardava con disprezzo alla rete “liberal” Nbc, che spesso veniva presa di mira sui social della galassia conservatrice. Non solo: l’ex presidente dei repubblicani è stata a lungo attiva nel diffondere la “grande bugia” delle “elezioni rubate” a Donald Trump, una teoria cospirativa ampiamente screditata ma tuttora immensamente popolare tra i sostenitori sfegatati dell’ex presidente.

Porte girevoli

Alcuni commentatori conservatori hanno accusato il network televisivo di avere pregiudizi verso i repubblicani, tra questi l’ex portavoce di George W. Bush Ari Fleischer che sul suo account su X ha invocato il boicottaggio del canale da parte degli eletti repubblicani. Ironia della sorte, anche Fleischer ora fa il commentatore politico su Fox News, così come Jen Psaki, ex addetta stampa della Casa Bianca nel primo biennio di Joe Biden, è in forze alla Msnbc da maggio 2022. Secondo un report del portale Axios, Psaki negoziò il suo contratto quando era ancora alle dipendenze del governo federale, una mossa eticamente discutibile ma consueta, visto che a partire dal 2000 dieci portavoce di presidenti americani sono finiti negli studi televisivi di qualche network per commentare l’attualità.

E del resto nessun canale ormai ha pretese di assoluta neutralità, se Fox News è comunemente considerata la preferita dei repubblicani, si pensa lo stesso della Cnn o di Nbc. Quindi la presenza in studio di ex politici serve per vivificare un dibattito che, qualora si accenda, serve per attirare il maggior numero di spettatori possibile, spesso già orientati in un senso o nell’altro. E pazienza se questo pone un problema etico di “porte girevoli” tra governo federale e un mondo dei media sempre più oggetto di tagli draconiani dove le redazioni giornalistiche vengono sempre più ridotte all’osso.

Il caso di McDaniel però è sintomatico di un altro fatto: il trumpismo non è mediaticamente normalizzabile perché non è riconducibile a una dicotomia tra conservatori e progressisti che finora ha retto l’organizzazione dei dibattiti nei salotti televisivi.

Il cosiddetto “mondo Maga” che gravita intorno all’ex presidente ha sempre mostrato un certo disprezzo per il cosiddetto “establishment mediatico”, definendolo in più occasioni come parte di quella “palude” che proprio Trump vorrebbe bonificare.

A dimostrazione di questa ostilità, la riunione di quest’anno del Conservative Political Action Committee (Cpac), una delle principali organizzazioni politiche della galassia trumpiana, ha pregiudizialmente escluso tutti i giornalisti delle testate cosiddette “nemiche”, definendo i reporter che ci lavorano quali “propagandisti”. Ciò non toglie che altri tentativi di normalizzazione degli ex trumpiani siano andati a buon fine: l’ex capo di gabinetto Mick Mulvaney dal marzo 2022 è un commentatore della Nbc, nonostante durante il quadriennio trumpiano abbia usato parole poco ripetibili nei confronti dei “media liberal”.

Propaganda e media

Alcuni commentatori progressisti però hanno deciso che McDaniel dovesse rappresentare una sorta di test: così si spiega la durissima posizione dell’ex giornalista di New Republic Brian Beutler, che sulla sua newsletter personale ha invitato i network televisivi e altre istituzioni “rispettabili” a smettere di assorbire pezzi del trumpismo, che rimane un’anomalia politica nella vita democratica americana. Già nel 1922 il giornalista Walter Lippmann nel suo Public Opinion aveva analizzato i punti di congiunzione tra il giornalismo e la propaganda politica, visto che entrambi sapevano creare «mondi mentali» non totalmente corrispondenti al vero.

Con i trumpiani questo limite sembra ormai totalmente travalicato, sin da quando la collaboratrice di Trump Kellyanne Conway parlò dell’esistenza di «fatti alternativi» nei primi giorni di presidenza del tycoon. Come può quest’attitudine venir assorbita in un discorso politico razionale?

Appare comunque paradossale che a far le spese di una rivolta coordinata di una redazione sia stata proprio McDaniel, recentemente rimossa perché “non abbastanza fedele” all’ex inquilino della Casa Bianca.

Perché non è il conservatorismo il tratto prevalente del trumpismo, ma il culto del leader. Incompatibile con il dibattito democratico tradizionale.

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