La costruzione dell’Europa, intesa come area economica integrata, è un cantiere sempre aperto in cui l’avanzamento dei lavori pare scandito dalle crisi. La crisi del debito del 2012 ha rivelato frammentazione, inefficienza e fragilità del sistema bancario; la crisi da pandemia e la guerra in Ucraina, un sistema energetico ancora più frammentato, inefficiente e fragile.

La crisi del debito

La crisi bancaria ha indotto la creazione di nuove istituzioni e un nuovo quadro normativo: sono così nati la Vigilanza bancaria unica all’interno della Bce, l’Organo per la risoluzione delle banche (Single Resolution Board) e il Mes (European Stability Mechanism) per l’assistenza finanziaria ai paesi in crisi e la ricapitalizzazione dei loro sistemi bancari. Dopo 10 anni il cantiere è ancora aperto: il sistema bancario europeo è più solido, anche se non è ancora integrato, redditizio e competitivo.

Manca l’assicurazione unica sui depositi, perché non si è rescisso il legame tra il rischio del debito pubblico di un paese e quello delle sue banche, e non si vuole che la garanzia sui depositi di una banca diventi una garanzia anche per le finanze pubbliche del paese cui appartiene.

Tuttavia, è un serpente che si morde la coda: le banche devono rispettare i requisiti di liquidità e ridurre i rischi degli attivi, per i vincoli di capitale, e lo fanno investendo in titoli di stato, privi di rischio ai fini della regolamentazione, soprattutto nei paesi come l’Italia in quanto costituiscono il safe asset dal rendimento più elevato.

Viene così meno uno dei principali vantaggi delle fusioni transfrontaliere, ovvero raccogliere dove il costo è più basso per investire dove i rendimenti sono più elevati: oggi i depositi rimangono nello stesso paese dei prestiti, e il sistema bancario europeo resta frammentato secondo i confini nazionali. E quello della Germania, la prima economia europea, è il più frammentato, inefficiente e meno redditizio.

Riserva di caccia

La regolamentazione privilegia patrimonializzazione e liquidità, a discapito della redditività, già penalizzata dalle difficoltà di realizzare le economie di scala tramite aggregazioni a livello europeo, ulteriormente ostacolate dal costo sociale delle ristrutturazioni che comporterebbero.

Infatti, il rapporto tra costi e ricavi delle banche europee eccede di gran lunga quello delle istituzioni americane, ma i governi nazionali preferiscono evitare che la ricerca dell’efficienza a livello continentale li esponga a una perdita di consenso. Così il mercato dei capitali europei è diventato una riserva di caccia delle banche americane e del private equity.

Invece di avere l’obiettivo primario di risolvere rapidamente le crisi e promuovere l’efficienza e le aggregazioni usando il mercato, come avviene negli Usa, la normativa europea sui fallimenti bancari punta a minimizzare salvataggio pubblico e i costi sociali.

Questo avviene perché la Direttiva sulle risoluzioni è pensata per gestire il caso di fallimenti bancari singoli, ma le crisi bancarie hanno storicamente una natura sistemica, e quindi il mercato da solo non ha le risorse e le capacità per risolverle; oppure coinvolgono una grande istituzione too big to fail e diventano sistemiche.

C’è poi la scappatoia della “ricapitalizzazione precauzionale” di una banca da parte di uno stato nei casi di difficoltà temporanee e straordinarie, se però la redditività prospettica della banca rimane elevata: lo stato dovrebbe entrare nel capitale per poi uscirne poco dopo con profitto, come è accaduto con il salvataggio delle banche americane e della GM sotto l’amministrazione Obama; o Lufthansa recentemente.

Noi, invece, abbiamo di fatto nazionalizzato la Popolare di Bari e usato i fondi “precauzionali” per trasformare Mps in un pozzo senza fondo di risorse pubbliche. E in Germania hanno fatto anche di peggio.

La crisi energetica

Se ci sono voluti quattro anni per gettare le basi dell’architettura normativa e istituzionale di un sistema bancario efficiente e integrato in Europa, e il cantiere è ancora aperto, probabilmente ce ne vorranno molti di più per quella del settore energetico. Rispetto a quella bancaria, infatti, la crisi energetica parte da situazioni nazionali drasticamente difformi, con un sistema anche più frammentato e segmentato secondo i confini nazionali.

Il primo ostacolo è la differenza delle fonti energetiche e di approvvigionamento: per esempio, Portogallo e Spagna non dipendono dal gas russo e hanno la maggiore capacità di rigassificazione di LNG, ma non sono connessi al resto d’Europa. Gran Bretagna, Irlanda, Olanda e Danimarca fanno affidamento prevalentemente su gas locale e sulla Norvegia. L’Europa dell’est, ad eccezione della Romania, dipende dalla Russia. L’Italia punta al nord Africa, mentre la Grecia dipende dall’Asia centrale.

In un simile contesto, e in assenza di interconnessioni, un price cap generalizzato non può funzionare: interessi e fornitori troppo diversi. Il tetto del prezzo è però un’arma da usare contro il monopolista russo che punta, con il blocco delle forniture nel prossimo inverno, a creare disagio sociale per spaccare il sostegno europeo all’Ucraina. Ed è un’arma efficace, perché, superato l’inverno e il suo potere di ricatto, la Russia non potrà vendere il suo gas ad altri che all’Europa: le mancano le infrastrutture e, per realizzarle, ci vogliono anni e capitali ingenti.

Date le premesse, non ha molto senso parlare di mercato unico dell’energia e di “prezzo” di mercato. Credo che molti si stiano oggi domandando perché il prezzo dell’elettricità sia legato a quello del gas. In un mercato deregolamentato il prezzo dell’elettricità è dato infatti dalla fonte che alimenta la centrale marginale: se in un dato momento si domandano 100 unità di elettricità, il prezzo è determinato dal costo di chi fornisce l’ultima unità necessaria ad assicurare equilibrio fra domanda e offerta, è questa è sempre stata la funzione delle centrali a gas.

L’esplosione del prezzo del gas ha creato però una serie di reazioni a catena che hanno minato alla base l’architettura del mercato e le società del settore in Europa. Ogni mercato, che sia di materie prime o attività finanziarie, necessita di un mercato a termine per coprirsi dai rischi.

Le società elettriche vendono a termine gas per stabilizzare i propri ricavi, sfruttando il legame tra gas ed elettricità nella determinazione del suo prezzo. Oggi però sono in forte perdita sui contratti a termine per il gas e la domanda dei margini a garanzia rischiava di innescare crisi finanziarie.

I governi sono così intervenuti, permettendo alle banche di finanziare i margini sui contratti a termine, e chiedendo ai mercati di ridurre le garanzie richieste. Ma il problema di fondo rimane. Cambiare meccanismo di formazione dei prezzi elettrici, dal costo marginale a quello medio, è possibile, ma riduce i profitti di chi produce energia da fonti a più basso costo, come le rinnovabili, e fa venir meno l’incentivo a investire in energia verde. Effetto analogo ha la tassa sugli extraprofitti, anche se inevitabile per alleviare il disagio sociale. Creare un mercato separato per le rinnovabili ha poco senso, tenuto conto della scarsa interconnessione delle reti e l’enorme dispersione geografica della produzione.

I vincoli tariffari e le imposte, a fronte di costi crescenti, creano dissesti e conseguenti salvataggi pubblici, come fu per le banche: la Francia nazionalizza Edf, la Germania Uniper e Vng. E c’è infine il sistema dei Certificati per le emissioni nocive, che doveva incentivare la transizione ambientale dei settori inquinanti di fatto tassandoli, ma che ora rischia di mettere in ginocchio diverse imprese energivore.

Siamo al punto in cui non solo non si vede una soluzione per il futuro del sistema energetico europeo, ma neanche la visione di quale potrebbe essere questo futuro, nonché quanto sia coerente con gli obiettivi del green deal.

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