La sua avventura olimpica si è chiusa oggi con la sconfitta nel turno di ripescaggio per mano della nazionale dominicana. Ma per il team del baseball israeliano questa partecipazione a Tokyo 2020+1 rimane nella storia. Sia perché è stata la sua prima olimpiade, sia perché essa lascia in eredità allo sport nazionale un messaggio forte di patriottismo e la riuscita di un esperimento sportivo e sociale che dall'esterno sarebbe parso azzardato: una squadra costituita quasi integralmente da giocatori naturalizzati, cittadini statunitensi di origine ebrea. Nati e vissuti lontano ma entusiasti di difendere i colori di Israele, nonché spinti da notevole patriottismo sportivo.

E certo per gran parte dei naturalizzati la possibilità di competere a livello internazionale (chance olimpica compresa), che dalla nazionale Usa sarebbe stata negata, è stata una motivazione forte per accogliere la convocazione. Ma le dimostrazioni di attaccamento alla bandiera israeliana sono andate al di là dell'ambizione di carriera. E inoltre i risultati conseguiti a partire dal 2017, anno in cui questo esperimento è stato avviato, rafforzano l’esperimento. La qualificazione ai Giochi di Tokyo è un traguardo ma anche un punto di partenza.

L'inventore di una nazionale

Colui che a buon diritto viene indicato come l'architetto di questa nazionale è un cittadino statunitense di famiglia ebrea, Peter Kurz. Uno dei ritratti biografici che sul suo conto girano per il web racconta che il suo amore per Israele sorse nel 1967, quando all'età di 10 anni trascorse da quelle parti due mesi di vacanza assieme ai genitori. Da quel momento in poi i legami fra Kurz e la patria d'origine dei genitori sono stati rafforzati dai continui viaggi fra Usa e Israele, culminati nel 1976 con la scelta di compiere l'Alyiah, ossia l'immigrazione ebraica verso Israele.

Soltanto molto dopo Kurz si è sentito investire dalla missione di essere il pioniere del baseball in Israele. Ciò che rapidamente lo ha portato a scalare posizioni all'interno della Israel Baseball (Ib), dove adesso ricopre il ruolo di direttore generale della squadra nazionale. E dopo la riammissione del baseball come sport olimpico in vista di Tokyo 2020 (ne era stato estromesso in prossimità di Londra 2012) è scoccata l'idea, condivisa con l'allora presidente della federazione Haim Katz: costruire una squadra competitiva per approdare ai Giochi.

Missione proibitiva, se la si fosse condotta facendo affidamento esclusivamente sulla base demografica interna, ossia sugli israeliani nativi. Meglio, per Kurz, provare a sfruttare le proprie origini statunitensi e mettersi a fare reclutamento giocando la carta dell'eleggibilità. Ossia, reclutare atleti statunitensi di origine ebraica, sfruttando la carta dello ius sanguinis facilmente percorribile sia con riferimento alla legislazione israeliana sulla cittadinanza nazionale che riguardo alle regole della federazione internazionale del baseball. Il risultato è che i ranghi della nazionale israeliana si popolano di nativi statunitensi di sangue ebraico, tutti entusiasti di giocare per la nuova nazionale ma anche di rinsaldare il legame identitario con Israele.

Scalata nel ranking internazionale

Questo orgoglio è stato testimoniato, fra gli altri, dal pitcher Joey Wagman, californiano di San Luis Obispo che mai al mondo avrebbe sognato di partecipare alle Olimpiadi. Ma una volta che gli è stata data l'occasione si è detto orgoglioso di potere giocare per Israele ai Giochi: “Non è soltanto rappresentare un paese, ma un popolo intero”. Un riferimento abbastanza chiaro a tutta la diaspora, ma anche una declinazione della doppia appartenenza fatta attraverso i campi da gioco.

Come si diceva, Wagman è uno dei tanti israelo-americani che compongono la squadra allenata da Eric Holtz. Anzi, è più corretto dire che si fa prima a indicare il numero di israeliani nativi che compongono il gruppo: soltanto 4 su 24. Una situazione talmente curiosa da richiamare l'attenzione presso la stessa opinione pubblica israeliana. Il magazine settimanale del quotidiano Jerusalem Post ha dedicato al tema la storia di copertina dell'ultimo numero, con all'interno un lungo servizio dedicato ai giocatori e al loro rapporto con Dio, l'ebraismo e lo stato d'Israele.

Per gli israeliani è stata una sorpresa constatare di avere una squadra di baseball capace di scalare dal 41° al 24° posto il ranking mondiale. Che diventa il 4° posto nel ranking europeo, quello che ha permesso alla nazionale costruita da Kurz e guidata da Holtz di staccare il biglietto per Tokyo. Da dove è stata eliminata, ma non prima di avere raggiunto una storica vittoria contro il Messico. Tutto lascia pensare che l'esperimento non si fermerà qui.

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