È impossibile sapere cosa sia passato nella testa del primo ministro Benjamin Netanyahu quando, alle 6.29 di sabato scorso, è stato informato dell’attacco in corso da parte di Hamas. Si può immaginare che, come tanti israeliani, inizialmente abbia pensato all’ennesima schermaglia con i miliziani, priva di rischi significativi per il fronte interno israeliano.

È altrettanto probabile che, quando nelle ore successive emergeva la vera entità del massacro, abbia rimpianto la fretta con cui ha voluto tornare al governo dopo un breve, storico periodo all’opposizione. Se fosse successo lo stesso mentre era ancora fuori, avrebbe potuto dire che per vent’anni, con lui al potere, Israele non aveva vissuto una crisi di sicurezza profonda, e appena lo avevano esautorato, eccola qua. In pochi avrebbero potuto dargli torto.

Invece la macchia di aver presieduto al massacro di ebrei peggiore dall’epoca della Shoah segnerà per sempre la sua incredibile parabola politica. Più della grande trasformazione economica che ha fatto di Israele uno dei paesi più benestanti del mondo, più del trionfo diplomatico degli accordi di Abramo, o dei tanti anni di relativa calma sui fronti nemici.

I nuovi sondaggi

Lo conferma il primo sondaggio d’opinione diffuso dopo l’attacco di Hamas, quello del giornale israeliano Maariv. I tassi di approvazione di Netanyahu e dei suoi alleati sono in caduta libera. Il Likud scende a soli 19 seggi, ben al di sotto dei 32 attuali. I partiti estremisti Otzma Yehudit (Potere ebraico) e Zionut Hadatit (Sionismo religioso) hanno rispettivamente cinque e quattro seggi, poco più della metà di quelli ottenuti in occasione del voto meno di un anno fa.

Di solito l’effetto delle guerre è quello opposto: rafforza cioè il governo in carica perché favorisce una maggiore solidarietà nazionale. Ma l’enormità del massacro e la gravità del fallimento dell’intelligence e degli apparati di sicurezza provocano invece un collasso dei partiti della maggioranza. Da parte sua, la sinistra, già relegata ai margini della politica dalla seconda intifada, rischia che il 7 ottobre si trasformi nella data chiave di un suo definitivo tramonto.

Il ritorno di Benny Gantz

A volare è invece Benny Gantz, l’ex capo di stato maggiore dell’esercito e ora leader di HaMahane HaMamlakhti (Unità Nazionale), con 41 seggi rispetto ai 12 detenuti attualmente. Proprio Gantz ha deciso di unirsi al governo di Netanyahu a fronte della crisi in corso. Oltre a lui l’accordo porta nell’esecutivo, come ministri senza portafoglio, i suoi deputati Gadi Eizenkot, Gideon Sa’ar, Hili Tropper, Yifat Shasha-Biton e Avigdor Lieberman.

Eisenkot era a sua volta capo di stato maggiore, anche se non è stato ministro della difesa come Gantz. Saar è ex ministro della giustizia e storico rivale di Netanyahu all’interno del Likud. Gantz farà parte del gabinetto di guerra con Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, mentre Eisenkot e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, un fedelissimo di Netanyahu, avranno un ruolo di osservatori.

Grande assente è Yair Lapid, ex primo ministro del fugace governo del cambiamento ed esponente più in vista all’opposizione insieme a Gantz. Per unirsi, Lapid aveva chiesto venissero esclusi dall’esecutivo Ben Gvir e Smodritch, i due ministri oltranzisti.

Invece Gantz si è accontentato della promessa che non vengano coinvolti nei processi decisionali importanti relativi alla guerra. Una condizione modesta, se si considera che prima Gantz si rifiutava categoricamente di entrare in coalizione con Bibi. Tanto più dopo che, in occasione della crisi politica dei cicli di elezioni senza fine del 2019-2020, aveva accettato di farlo citando le circostanze eccezionali, per poi vedersi gabbato poco prima del cambio di testimone sulla poltrona di primo ministro.

Silenzio si spara

Il principio dello “sheket iorim”, “silenzio si spara”, secondo cui si mettono da parte i conflitti interni durante la guerra, evita per ora processi politici a Netanyahu. Ma arriverà il momento di fare i conti con le responsabilità della mancata prontezza a fronte dell’attacco.

Durante la stagione delle proteste contro la riforma giudiziaria più volte i vertici militari avevano messo in guardia quanto alle conseguenze sulla capacità di funzionamento delle forze armate. Bibi non li ha presi seriamente. Né la polarizzazione e il caos sul fronte domestico, che probabilmente hanno giocato un ruolo almeno nella scelta del tempismo dell’attacco, lo avevano indotto ad interrompere l’iter giuridico della legislazione contestata.

Ancora più di là da venire è la rivisitazione della sua visione politica alla luce dell’attacco. La teoria della cancellazione del problema palestinese e della normalizzazione diplomatica con il mondo arabo attraverso quella che Bibi chiama “la pace della forza” ha mostrato i suoi limiti. Anzi gli è letteralmente scoppiata in faccia.

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