Percorrere diciotto chilometri senza sosta è faticoso per ogni persona. Le difficoltà aumentano se si ha una disabilità motoria. E se si aggiunge uno scenario di guerra, dove alla minima mossa sbagliata si rischia di finire nel mirino di un cecchino, il tragitto allora rischia di essere infinito, oltre che pericoloso. 

«Mancavano tre chilometri quando sono svenuta. Non riuscivo più a muovermi, ero sfinita. Mio padre ha negoziato con un uomo per farmi salire su un carretto trainato da un animale», racconta Mariam (nome di fantasia per questioni di sicurezza) che ha attraversato la Striscia di Gaza da nord a sud per mettersi in salvo dalla guerra. «Mentre camminavamo avevamo le mani alzate con le carte d’identità in mano».

Quattro giorni dopo il 7 ottobre 2023. la sua casa è rientrata nell’area di un ordine di evacuazione dell’esercito israeliano. «Mio padre disse a tutti di andare via, lui voleva rimanere a sorvegliare la casa. Ma come famiglia decidemmo di vivere o morire insieme. Così lo abbiamo convinto ad andare via con noi», racconta oggi da Il Cairo.

Da quel momento l’intera famiglia è stata sfollata più volte, prima di attraversare il valico di Rafah e andare in Egitto. Il fratello, invece, è ancora a Gaza. Nel racconto di Mariam c’è tutto: il dramma di una persona disabile in un contesto di guerra, la vergogna di aver avuto a disposizione i soldi per evacuare da Gaza e la delusione di vivere in un nuovo paese che non le garantisce alcun diritto.

Illegale

A Mariam tremano le gambe. Fa fatica a trovare le parole per spiegare la situazione di stallo che sta vivendo in Egitto. «La nostra posizione giuridica è al 100 per cento illegale. Non abbiamo permesso di soggiorno. Abbiamo una permanenza che abbiamo acquistato con i nostri soldi, siamo usciti da Gaza pagando».

Nella Striscia lavorava in una ong che si occupava, tra le altre cose, di trovare un’occupazione a donne con disabilità. E il suo ruolo era quello di far incontrare domanda e offerta. In tanti anni di lavoro ha avuto modo di entrare in contatto con operatori umanitari internazionali. «Dagli italiani ho imparato cosa significa il diritto. Mi hanno formato sulla convenzione dell’Onu dei diritti delle persone con disabilità», dice con orgoglio.

Nonostante le difficoltà imposte dalle autorità israeliane, a Gaza aveva trovato la sua dimensione. Ora, invece, non lavora più come migliaia di gazawi che si sono rifugiati in Egitto. Tanti di loro sono finiti in circuiti di lavoro nero, sfruttati e mal retribuiti. Le giornate di Mariam sono interminabili. «Stare fermi a casa, in attesa, senza avere il diritto di fare niente... È difficile spiegare cosa si prova».

Secondo le statistiche ufficiali, nel paese di Abdel Fattah al Sisi ci sono oltre 120mila palestinesi. Ma sono numeri al ribasso. Non hanno uno status di rifugiato riconosciuto e neanche una residenza. Questo rende difficile accedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria o anche semplicemente ai servizi bancari. Migliaia di bambini riescono a studiare con lezioni online di alcune scuole o organizzazioni attive in Cisgiordania. Accedere agli istituti privati egiziani è fuori dalla loro portata.

Questioni politiche

I gazawi sfollati che non rientrano nel mandato dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) dovrebbero essere sotto la responsabilità dell’Unhcr, ma in Egitto non possono essere registrati fuori dal consenso dalle autorità locali. L’ambasciatore palestinese in Egitto, Diab al Louh, ha proposto al governo egiziano di fornire delle residenze temporanee da rinnovare fino alla fine della guerra. Per ora un progetto morto. «Nessuno di quelli che è uscito da Gaza ha pensato di rimanere in Egitto per più di due o tre mesi. Ritrovarci qui senza vedere la fine del tunnel è veramente difficile», dice Mariam.

Sono tante le motivazioni politiche che guidano l’Egitto nella mancata regolarizzazione dei palestinesi nel suo territorio. La prima, ma non per ordine di importanza, è di tenuta interna. L’Egitto è un paese in crisi economica da decenni, gran parte della popolazione vive poco più sopra o sotto della soglia di povertà. Fornire un qualche tipo di welfare, anche minimo, a centinaia di migliaia di persone rischia di essere altamente impopolare per al Sisi.

La seconda, collegata alla prima, è l’impegno economico per le casse dello stato che diventerebbe molto alto nel lungo periodo. Infine, garantire una nuova vita ai palestinesi rischia di non farli tornare mai più a Gaza. Un’idea che fa gola al governo israeliano, ma non all’Egitto.

Indipendentemente da regioni economiche o politiche, i gazawi non si sarebbero mai aspettati di vivere in una situazione simile. Un dramma nella tragedia. «Pensavamo di ricevere un trattamento diverso. Stiamo solo aspettando che finisce la guerra per tornare a Gaza».

Sogni infranti 

«Abbiamo provato a chiedere un permesso di soggiorno, ma ci hanno detto che viene concesso solo a chi apre attività imprenditoriali con un certo capitale», spiega Mariam. Nel frattempo la sua famiglia ha trovato accoglienza nella casa di un suo cugino che da anni vive in Egitto. «Il governo e altre organizzazioni ci hanno abbandonato. Chi viene qua si deve arrangiare». Mariam ha molte difficoltà a ricevere l’assistenza sanitaria di cui ha bisogno. 

«Un mio parente si è operato in un ospedale parastatale egiziano. Quando hanno saputo che non aveva il permesso di soggiorno ed era palestinese gli hanno fatto pagare una cifra molto alta. Chi non ha soldi resta negli ospedali in condizioni terribili. Una volta fuori devono arrangiarsi per sopravvivere», racconta.
I risparmi accumulati negli anni stanno finendo. Difficile capire come vivranno nel prossimo futuro. «Ci sono poche organizzazioni che danno supporto ai palestinesi: forniscono aiuti per l’affitto o pacchi alimentari». Ma la comunità spesso è frastagliata.

L’Egitto è un paese molto grande, dalle lunghe distanze, ed è molto difficile rimanere in contatto. «Avevo molti sogni, che ora fatico a immaginare», dice Mariam. «Non perdo mai la speranza di poter tornare nel mio paese e nella mia casa».

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