Per la prima volta il viso di Majed al Shorbaji è disteso. Dopo 18 mesi di prigionia a Gaza rivela il suo sorriso da una stanza dell’ospedale italiano ad Amman, in Giordania. In tutti i modi ha provato a lasciare la Striscia insieme a sua moglie ora in procinto di partorire il loro figlio Maher. «Sono partito da solo e ora torneremo in Italia in tre», dice. 

«Non so spiegare cosa è successo, ancora non ci credo. Sembrava impossibile uscire da Gaza». Nell’estate del 2023 Majed è ritornato nel campo di Jabalia dove è cresciuto per ritrovare suo padre malato. Il 15 ottobre avrebbe dovuto attraversare il valico di Rafah e partire dall’Egitto verso Fidenza, dove lavora dal 2019. Ma l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha decretato la sua prigionia.

Ogni gazawi adulto è considerato da Israele arruolabile e quindi non può uscire dalla Striscia. In questi lunghi mesi la società civile e le autorità italiane hanno fatto pressioni sullo stato ebraico per farlo uscire ma senza ottenere risultati. A nulla serviva il suo permesso di soggiorno italiano, è sempre stato Israele ad avere nelle mani il suo destino.

L’evacuazione

Dopo due tentativi di evacuazione falliti il 7 e il 14 maggio, il 20 maggio è stato il giorno giusto. Prima la chiamata dell’Unicef, poi quella del consolato italiano a Gerusalemme. «Majed, tu e tua moglie potete uscire. Avete il permesso. Andrete in Giordania»: sono state le parole della libertà. «Non ci credevo. Ho realizzato che stavamo uscendo solo quando sono salito sull’autobus insieme alle altre famiglie evacuate e abbiamo superato il valico di Kerem Shalom». Il viaggio è stato interminabile. Da Jabalia dove si trovava si è spostato con un tuk tuk fino a Deir al Balah passando lungo la costa. «Non potevamo utilizzare macchine, ma solo tuk tuk oppure carretti trainati da animali. Le auto vengono bombardate da Israele». Una volta a Deir al Balah, Majed è arrivato agli uffici dell’Unicef e l’evacuazione è iniziata alle 3 del mattino del 20 maggio. Cinque ore per percorrere una ventina di chilometri e uscire da Gaza. Alla frontiera, ad aspettarli, c’erano le ambulanze che li hanno portati in Giordania. Da lì, lo spostamento fino all’ospedale italiano ad Amman.

«Quando sono arrivato in Giordania ero felice, per tutto il tempo ho avuto paura che gli israeliani cambiassero idea», racconta Majed con un sorriso che non va più via. Ad Amman è tornato a mangiare di nuovo carne, erano settimane che non accadeva. Da quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco degli aiuti umanitari lo scorso 2 marzo, lasciando due milioni di persone morire di fame. «Abbiamo comprato anche dei vestiti, qui la vita non è cara come a Gaza». Sono già lontani i brutti ricordi di quando mangiava foglie o di quando ha rischiato di morire. Per tre volte i raid aerei hanno colpito nelle vicinanze della sua abitazione, rimasta gravemente danneggiata. L’ultima settimana scorsa.

Nonostante tutto, a Jabalia è rimasto suo fratello «per controllare la nostra casa». Mamma e papà sono a Gaza city. Una volta che sua moglie partorirà, tornerà a Fidenza. «Voglio riposare, godermi mio figlio, tornare a lavorare e provare a far venire in Italia i miei genitori». Non deve più preoccuparsi di sopravvivere in un territorio di guerra o di sperare di trovare un pezzo di pane da dividere in famiglia. E anche se in Italia ha perso il lavoro, si dice fiducioso che ne troverà un altro. «Sono nato di nuovo. La mia nuova vita è iniziata ieri»

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