Saranno inseguiti «fino ai confini della terra, per tutta la vita, vivranno nella paura finché saranno costretti ad arrendersi». Secondo il “governatore”, John Lee, è questo il destino degli otto leader del movimento pro-democrazia riparati all’estero contro i quali lunedì le autorità locali hanno spiccato un mandato di cattura per aver provato a «distruggere Hong Kong e intimidirne i funzionari».

I ricercati (chiunque, “anche parenti”, fornisca informazioni utili alla loro cattura sarà ricompensato con un milione di dollari hongkonghesi) sono figure di primo piano delle proteste di massa anti-Pechino che squassarono il Porto profumato dalla primavera 2019 all’inverno successivo. Si tratta degli ex parlamentari Nathan Law Kwun-chung, fondatore del disciolto partito indipendentista Demosisto, Dennis Kwok Wing-hang, del Partito civico, che ha deliberato la sua chiusura il 27 maggio scorso e Ted Hui Chi-fung, del Partito democratico; di Mung Siu-tat, della Confederazione sindacale di Hong Kong, che il 3 ottobre 2021 ha approvato il suo scioglimento; dell’avvocato Kevin Yam Kin-fung; degli attivisti Finn Lau Cho-dik, Anna Kwok Fung-yee e Elmer Yuan Gong-yi. Secondo Pechino, che dietro le quinte manovra il suo “chief executive” Lee, sono colpevoli di essersi battuti per l’imposizione di sanzioni internazionali contro funzionari locali e il Partito comunista cinese (Pcc) in risposta all’erosione dell’autonomia dell’ex colonia britannica.

Legge liberticida

Ma i media hongkonghesi hanno rivelato l’esistenza di una lista nera molto più folta, con decine di ex deputati e militanti rifugiati all’estero inseguiti dal nuovo corpo di polizia per la sicurezza nazionale, accusati di attività di finanziamento online per la “promozione della secessione e dell’eversione”.

Perseguitati “fortunati” che, a differenza degli oltre diecimila manifestanti arrestati e dei circa tremila che sono stati incriminati in patria, sono stati accolti nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Australia, da dove proseguono la loro battaglia contro il Pcc che – con il IV plenum del XIX comitato centrale (28-31 ottobre 2019) – ha assunto il controllo della politica hongkonghese. Entrambe varate dal parlamento di Pechino, la Legge sulla sicurezza nazionale (in base alla quale gli otto sono perseguibili) entrata in vigore il 30 giugno 2020 e la riforma elettorale dell’ex colonia britannica approvata l’11 marzo 2021 sono conseguenze di quella decisione strategica del partito.

Nella conferenza stampa convocata per spiegare l’ultima repressione, l’ex poliziotto che Pechino ha messo a capo della “città ribelle” per completarne la normalizzazione ha puntato l’indice contro le cosiddette “interferenze straniere”. «Gli agenti devono cercarli, perché questo è il messaggio che inviamo non solo a Hong Kong, ma a coloro che cercano di mettere in pericolo la nostra sicurezza nazionale», ha sostenuto Lee.

Condanna internazionale

Unanime la condanna dei paesi nei quali è stata accolta la diaspora di attivisti. Il ministro degli Esteri britannico, James Cleverly, ha avvertito che Londra «non tollererà alcun tentativo da parte della Cina di intimidire e mettere a tacere le persone nel Regno Unito e all’estero». Secondo il dipartimento di stato Usa, la decisione della polizia di Hong Kong ha creato «un pericoloso precedente che minaccia i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone in tutto il mondo». Mentre il governo australiano si è detto «profondamente deluso» dai mandati di arresto.

Gli Usa, il Regno Unito e l’Australia hanno sospeso i trattati di estradizione proprio in segno di protesta contro la liberticida Legge sulla sicurezza nazionale, che ha introdotto vaghi reati di “eversione”, “secessione” e “collusione con forze straniere”, attribuendo alle forze dell’ordine e alla nuova unità di reazione anti-terrorismo ampi poteri per contrastarli.

Ma Lee ha sottolineato che la giurisdizione extraterritoriale è prevista anche dalle leggi sulla sicurezza nazionale di altri paesi, aggiungendo: «Non ho paura di alcuna pressione politica che ci viene esercitata perché facciamo ciò che crediamo sia giusto».

È una vicenda questa dei politici-ricercati che dimostra che quella di Hong Kong è una ferita ancora aperta, che contribuisce a incrinare l’immagine della Cina nel mondo. Ad alimentare una spirale di incomprensioni, sanzioni e rappresaglie. Il fatto è che per Pechino, da qualche anno, Hong Kong è diventata una questione di sicurezza nazionale.

Ieri l’Interpol ha fatto sapere di non aver ricevuto alcuna richiesta di “red notice” relativa agli otto. Anna Kwok, che a Washington dirige lo Hong Kong Democracy Council, ha invitato a vietare la partecipazione di Lee al prossimo vertice dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec), idea rilanciata dal Wall Street Journal, che ha scritto che «le società libere devono dimostrare alla Cina e a Hong Kong che prendiamo le nostre leggi tanto seriamente quanto Hong Kong e la Cina abusano così prontamente delle loro».

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