Quattro presidenti degli Stati Uniti, due repubblicani e due democratici, tutti a confrontarsi con l’Afghanistan e a promettere vittoria. Il punto è che quei presidenti hanno tutti fallito. «Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti per l’incapacità di definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili», dice Henry Kissinger nella sua analisi della disfatta. Questa è una archeologia delle illusioni infrante, la cronistoria degli obiettivi dichiarati dalla Casa Bianca dal 7 ottobre 2001, il giorno in cui George W. Bush annunciò il primo attacco in terra afghana, a oggi. La guerra più lunga della storia degli Stati Uniti è una guerra persa.

L’inizio di tutto

È il 7 ottobre 2001. Non è passato neanche un mese da quel giorno di settembre, l’11, in cui in un’aula di scuola elementare della Florida un assistente di George W. Bush ha bisbigliato nell’orecchio del presidente la notizia dell’attacco alle Torri gemelle. Bush parla alla nazione e annuncia «azioni militari attentamente mirate, concepite per annientare l’uso del paese afghano come base terroristica e per attaccare la capacità militare del regime talebano». Azioni attentamente mirate, carefully targeted.

Oggi, a distanza di vent’anni, il bilancio di quelle azioni mirate si riassume in più di 2.300 soldati statunitensi morti sul campo e poco meno di mille miliardi di dollari spesi dai contribuenti americani. Se quell’intervento è presentato a ottobre 2001 come mirato ad annientare terroristi, gli sviluppi dicono tutt’altro. Solo nei primi tre mesi dell’operazione Enduring Freedom, a fine 2001, almeno 1.300 civili furono uccisi sotto il peso dei bombardamenti «mirati», presentati all’opinione pubblica come avamposti di una bulls-eye war, una guerra che punta solo all’obiettivo. Dal 2009, da quando cioè l’Onu iniziò a registrare in modo sistematico il numero di vittime civili, oltre 111mila afghani sono rimasti feriti e uccisi sotto i colpi di quella guerra. «La gente afghana oppressa conoscerà la generosità dell’America», parole sempre di Bush, quel 7 ottobre in cui tutto comincia.

La dottrina Bush

La strategia di sicurezza nazionale elaborata compiutamente dal repubblicano Bush nel 2002 contestualizza l’azione in Afghanistan dentro una cornice, una visione del mondo e della missione americana. Più che una strategia, quel documento è una escatologia: «Gli Usa possiedono una forza e un’influenza mondiali che non hanno precedenti né uguali», Washington è portatrice di un destino salvifico. «Questa nostra posizione, che si regge sulla fede nei principi di libertà e di una società libera, comporta anche responsabilità, obblighi e opportunità senza antecedenti. La grande forza di questa nazione dev’essere usata per promuovere un equilibrio di potere a favore delle libertà». Da una parte i totalitarismi distruttivi, dall’altra l’America portatrice di libertà. Corollario di questa dottrina è quella della guerra preventiva; si veda alla voce “guerra in Iraq”, sempre per mano di Bush, nel 2003.

Yes we can?

«Davanti alla guerra, bisogna poter credere che possa arrivare la pace», dice Barack Obama in campagna elettorale; è il 2007. Lui è il presidente che sfila gli Stati Uniti dalla guerra in Iraq e che nel 2011 assiste dalla situation room alla morte di Osama bin Laden, a dieci anni dall’attacco alle Torri. Ma il democratico, per il quale a parole tutto è possibile («Yes we can»), è anche il presidente che dall’Afghanistan non riesce a sfilarsi. A dicembre 2009, dopo un solo anno alla Casa Bianca, dice: «Mentre in Iraq abbiamo fatto passi da gigante, la situazione afghana invece si deteriora. Al Qaida ha porti sicuri in Pakistan e mantiene un filo rosso coi Talebani, il governo afghano eletto è infiltrato dalla corruzione e dal commercio di droga, le forze di sicurezza sono insufficienti». Una presa d’atto che potrebbe esser pronunciata oggi. Ma che porta Obama a concludere: «Ho approvato la richiesta di aumentare le truppe». A un mese dal suo insediamento, aveva già inviato 17mila soldati in più, fatto spoils system ai vertici e stilato una strategia che a parole doveva non solo attaccare i nemici ma proteggere la popolazione. L’obiettivo dichiarato? «Smantellare al Qaida in Afghanistan e Pakistan e prevenire le sue minacce agli Usa e agli alleati».

Con i mesi, i soldati impiegati aumentavano ancora, a decine di migliaia. Al Qaida non è stata smantellata e continua a flirtare coi Talebani; l’obiettivo è fallito. L’unica rivoluzione copernicana operata da Obama è teorica; se Bush voleva esportare un modello, Obama anticipa ciò che oggi Biden usa come alibi: «Il compito non è solo degli Usa» e «il responsabile delle proprie sorti è il popolo afghano, il suo governo». All’epoca è già chiaro, che l’Afghanistan è un pantano; nel 2019 le rivelazioni degli Afghanistan Papers impongono i dati della sconfitta e delle false vittorie sotto gli occhi di tutti.

La exit

«Siamo stanchi di guerre senza vittorie, se dovessi seguire il mio istinto sarei già andato via». Questo è Donald Trump ad agosto 2017. «Ma non voglio fare come in Iraq, dove siamo corsi via e in quel vuoto si è insinuato l’Isis». Sono un problem solver, dice Trump, e vinceremo. Le nostre truppe «combatteranno per vincere». E come si decreta una vittoria? «D’ora in poi, la vittoria avrà una definizione chiara: far fuori l’Isis, al Qaida, prevenire la presa dell’Afghanistan da parte dei Talebani e gli attacchi terroristici». I Talebani hanno preso l’Afghanistan e la vittoria, con la sua «definizione chiara», appare una chiara sconfitta oggi. Ma già a febbraio 2020, con l’accordo di Doha, sono siglate le condizioni di quella sconfitta e il sedicente problem solver fa ciò che annunciò di voler evitare: firma le condizioni di una ritirata e il vuoto viene riempito.

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