Sconfitta in vista – e di proporzioni catastrofiche – per la sinistra alle presidenziali francesi ormai alle porte? Dipende dai punti di vista. O meglio, dalla collocazione che si assegna al principale protagonista della vicenda.

Perché anche per chi crede che il criterio geografico dicotomico di ripartizione dello spazio politico (o di qua o di là, o a sinistra o a destra, tertium non datur, secondo la prescrizione di Norberto Bobbio) sia tuttora valido per individuare le linee di conflitto che attraversano le società odierne, non dev’essere facile situare sulla mappa Emmanuel Macron.

Certo, chi ragiona in conformità con le categorie ideologiche novecentesche non può non rilevare – e non a torto – che più d’una delle leggi e delle riforme sociali proposte o messe in atto dall’attuale inquilino dell’Eliseo, a partire dalla contestata revisione del sistema pensionistico, appare ispirata da una logica neoliberale di razionalizzazione capitalistica e non certo da una filosofia socialista o quantomeno socialdemocratica.

Ma se si guarda ad altri aspetti dell’azione svolta nel corso del quinquennato, è difficile negare che il capo de La République en marche appartenga di buon diritto al campo progressista.

Del resto ciò gli è riconosciuto da tutte le forze che a livello internazionale a quell’area appartengono, Partito democratico italiano in testa, che si sono spese in varie occasioni nel sostegno alle sue scelte in politica interna ed estera.

Mentre, con rare eccezioni, a destra prevale nei suoi riguardi una buona dose di diffidenza, quando non di aperta avversione.

Contro la politica “mondialista”

Agli occhi dei populisti (ai quali spesso è stato indebitamente accostato da osservatori che con le categorie della scienza politica hanno poco o nessuna dimestichezza) e dei sovranisti, Macron rappresenta anzi il prototipo del politico “mondialista”: un tecnocrate espressione dei poteri finanziari al cui servizio ha lavorato, un esponente di quelle élites cosmopolite e prive di radici nella cultura popolare (hors sol, per dirla con la sintetica espressione francese), di quegli ambienti “che stanno in alto” e tiranneggiano “quelli che stanno in basso” che per quel genere di destre sono i nemici principali.

E se poi questi indicatori non bastassero per inserire il personaggio nel pantheon dell’attuale sinistra europea, si può aggiungere che a suo sostegno quasi tutte le altre forze di sinistra del suo e degli altrui paesi si sono immediatamente schierate nel 2017 la stessa sera in cui si è appreso che al ballottaggio l’ex ministro di Hollande avrebbe dovuto vedersela con Marine Le Pen, e già hanno annunciato di voler fare l’identica scelta se questa volta lo scenario dovesse ripetersi.

Premesso tutto ciò, di altre sinistre il panorama transalpino è ricco anche in questa circostanza, e se lo sguardo si volge nella loro direzione, le note dolenti aumentano a dismisura.

Il fenomeno Mélenchon

L’unico a salvarsi, in un panorama che ai simpatizzanti di quest’area non può che apparire deprimente, è il cavallo di ritorno Jean-Luc Mélenchon, il leader de La France Insoumise, la più consistente fra le numerose espressioni della sinistra radicale.

Partito in sordina, l’ex militante trotzkista e ministro socialista ha gradualmente risalito la china della campagna grazie alle sue sempre efficaci doti di tribuno e a un parziale recupero di quelle argomentazioni populiste che cinque anni fa gli avevano fatto conquistare un brillante 19,58 per cento e a cui le turbolenze interne al suo movimento – la cui base è fortemente attratta dalle suggestioni della cultura woke e new border, dal separatismo etnico e dalla teoria gender – lo avevano indotto a rinunciare per qualche tempo.

L’unico degli esponenti della sinistra che nel 2017 aveva rifiutato di dare indicazioni di voto per Macron al secondo turno è dato oggi dai sondaggi attorno al 15 per cento, riempie le piazze nei suoi comizi infuocati e confida nello scontro fratricida Le Pen-Zemmour per fare una clamorosa irruzione nel ballottaggio, dove peraltro le sue chances di successo sarebbero ridotte a zero.

In ogni caso, il buon risultato che sembra destinato ad ottenere consentirà a lui e al suo partito di fare la voce grossa al momento della definizione delle future alleanze a sinistra per le legislative di giugno, con la possibilità di confermare, quantomeno, la sua pattuglia parlamentare.

Se Mélenchon, quantomeno, sorride, molto meno soddisfacenti appaiono le prospettive dei suoi diretti rivali e probabili futuri alleati.

Fallito ogni tentativo di costringere i frammenti della galassia dell’ultrasinistra ad esprimere una candidatura unica – l’ex ministra Christiane Taubira, uscita vincente dalla controversa “primaria popolare”, non è riuscita neanche ad ottenere i 500 patrocini necessari a presentarsi –, l’unico esponente dell’area che è riuscito a farsi spazio almeno dal punto di vista mediatico è stato il comunista Fabien Roussel, segretario nazionale di un partito che negli scorsi anni sembrava giunto a uno stadio di definitiva consunzione, che si è attestato al 4 per cento delle intenzioni di voto.

Per riuscirci ha dovuto tuttavia ricorrere alla scorciatoia populista già cara a Mélenchon, a suon di dichiarazioni (sulla necessità di combattere più energicamente l’insicurezza, sull’eccellenza dell’alta cucina francese, sulla passione per l’inno nazionale, a favore della caccia e contro gli “integralisti” ecologisti) che gli sono valse severe reprimende via social da una parte del suo stesso ambiente.

Quanto a Philippe Poutou del Nouveau parti anticapitaliste e a Nathalie Artaud di Lutte Ouvrière, entrambi ormai presenze fisse della competizione per la presidenza, per la quale riescono a qualificarsi in virtù delle simpatie che trotzkismo e operaismo continuano a raccogliere tra i quadri intermedi della sinistra moderata, che negli ambienti radicali spesso si sono formati, il loro rispettivo 0,5 per cento testimonia quanto scarsa sia, oggi, l’efficacia del militantismo dei movimenti collettivi, le cui manifestazioni di protesta riescono a portare periodicamente in piazza consistenti masse di studenti e ad ottenere una considerevole eco nei media, ma non attivano significative correnti di simpatia in seno alla pubblica opinione.

In una certa misura, queste ultime considerazioni possono essere estese all’arcipelago ecologista, con la differenza che negli ultimi anni il principale partito che ne è espressione, Europe Écologie Les Verts (Eelv), è riuscito, anche in virtù del rilievo assunto dalla tematica del surriscaldamento globale e della connessa mobilitazione dei Fridays for Future ispirati da Greta Thunberg, a mettere radici in numerose realtà urbane e a conquistare nel 2020, grazie alle alleanze sottoscritte con i partiti di sinistra, i municipi di città importanti come Lione, Strasburgo, Bordeaux, Besançon, Tours, Annecy e Grenoble.

L’exploit, che faceva seguito al già ottimo 13,5 per cento raccolto alle europee dell’anno precedente, faceva presumere un insediamento stabile su ragguardevoli livelli della formazione verde e ha favorito la convergenza di vari altri gruppi e associazioni ambientaliste in una “primaria verde” che ha scelto come candidato condiviso il leader di Eelv Jannick Jadot. Il 4,5 per cento di cui costui è oggi accreditato rimette fortemente in discussione quella prospettiva. E pone un interrogativo sull’efficacia dell’azione di governo locale dei sindaci ecologisti.

La fine dei socialisti

Un discorso a parte merita infine il Partito socialista. Nella storia delle elezioni presidenziali, mai un suo candidato era sceso così in basso come, secondo i pronostici, accadrà ad Anne Hidalgo, ormai stabilmente inchiodata nei sondaggi all’1,5 per cento.

Per un’esponente politica ormai di lungo corso, sindaca in carica di Parigi, rieletta per un secondo mandato meno di due anni fa con poco meno della metà dei voti espressi, il dato appare paradossale e sconfortante, e a chi non conosce a fondo la politica francese potrebbe far ipotizzare n tramonto imminente e definitivo del più longevo dei partiti politici del paese. Eppure, è più che probabile che questo non accada.

Da quando, nel suo soggiorno all’Eliseo fra il 2012 e il 2017, François Hollande portò la carica che rivestiva ai minimi livelli di popolarità, in molti hanno pronosticato l’estinzione del Ps, il cui candidato Benoît Hamon si era fermato, nella scorsa tornata, ad un irrisorio 6,36 per cento e le cui dotazioni finanziarie si erano talmente rarefatte da indurre la direzione a vendere la storica sede di rue Solférino.

Defezioni e scissioni a catena parevano avvicinare il momento della fine. Ma alle elezioni comunali del 2020 e a quelle regionali dell’anno successivo il partito, giocando su alleanze e desistenze, è riuscito a mantenere le posizioni e, benché attestato poco sopra il 15 per cento a livello nazionale, ha mantenuto il controllo di cinque regioni e numerosi comuni.

Il segreto di questa capacità di resistenza è facile da svelare: le profonde radici notabiliari e clientelari che i socialisti hanno saputo costruire decennio dopo decennio, con una strategia di occupazione del potere che consente loro di vivere di rendita.

A più di centodieci anni dalla sua formulazione, che era stata elaborata a partire dai casi tedesco e italiano, in Francia la “legge ferrea dell’oligarchia” di Roberto Michels trova dunque ancora una volta in un partito socialista la sua piena conferma.

© Riproduzione riservata