Benché ciclicamente supportata e invigorita nel corso dei decenni, la causa palestinese non sembra essere mai stata tanto difesa in occidente come negli ultimi mesi. Una mobilitazione così ampia che pare trascendere le emozioni del conflitto stesso, dando adito a speculazioni su quanto essa sia spontanea, motivata e consapevole.

Basti pensare al paradosso di manifestazioni contro Israele che si dichiarano, al contempo, tenacemente avverse al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, vale a dire la figura che più si è adoperata per contenere l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza

La rielaborazione 

Tutto acquista contorni più delineati se si allarga la prospettiva. Incongruenze e contraddizioni non spariscono, né diventano meno sentite le motivazioni di chi scende in piazza o di chi, al contrario, ritiene intollerabili le contestazioni stesse. Tuttavia, da una prospettiva più allargata, ci si accorge di quanto queste dimostrazioni rappresentino soltanto una frazione di un processo di rielaborazione ben più esteso.

Una considerazione confermata dal fatto che il linguaggio dei manifestanti nei campus universitari di Europa e America è impregnato di parole ostili nei confronti dell’establishment dei propri paesi. Slogan che evocano la causa palestinese si intrecciano infatti alle battaglie contro l’ingiustizia sociale, alla lotta contro la discriminazione razziale, alla denuncia delle responsabilità del “potere” in tema di riscaldamento globale, neocolonialismo e molto altro.

Si tratta di una dimensione specifica delle piazze di Stati Uniti ed Europa: se le proteste contro Israele in Medio Oriente hanno infatti obbiettivi in parte coincidenti, le origini e le fondamenta ideali che le animano sono radicalmente differenti.

Un altro indizio di come le istanze espresse finiscano, nel loro insieme, per dare voce anzitutto all’attuale smarrimento identitario dell’occidente: una perdita di senso collettivo che la complessità insita in questa crisi (l’ultima di una lunga serie) ha incarnato in maniera evidente.

La proposta da costruire

Sarebbe un errore, tuttavia, far coincidere nel merito movimenti come ProPal, Black Lives Matter o Ultima Generazione. Ognuno di questi è stato genuinamente ispirato dalle condizioni del contesto in cui è sorto. Ma, attraverso una “visuale dall’alto”, è possibile intravedere, nel loro susseguirsi, il flusso uniforme di un faticoso percorso di evoluzione sociale, culturale e valoriale, a cui il mondo occidentale è oggi chiamato.

Sotto questa lente, allora ciascuna manifestazione può essere intesa come un segmento di un più ampio e complesso processo di trasformazione: il primo passo nella ricerca di una direzione che, per completarsi, ne richiede molti altri connessi fra loro.

La dimensione della protesta, in quanto incipit di questo cammino, non ha dunque il compito di trovare soluzioni pragmatiche, ma di mettere i problemi al centro dell’attenzione, di stimolare il dibattito e mobilitare le energie necessarie al raggiungimento delle aspirazioni collettive.

Poi, però, le bandiere devono smettere di essere date alle fiamme e altre dimensioni devono prendere corpo, se si vuole che il cambiamento auspicato diventi concreto. Il dissenso deve lasciare spazio alla costruzione di una proposta: un progetto concreto verso cui tendere attraverso l’evoluzione e la maturazione di quei valori fondanti che ne sono stati il motore iniziale.

All’estremo opposto, il pericolo è che il dissenso si atrofizzi in un cieco assolutismo, fatto di ideali tanto irrinunciabili quanto irraggiungibili. Il modo più facile perché, dopo le bandiere, si passi a bruciare qualcosa di ben più prezioso…

Ogni protesta rappresenta un rischio, certo, ma, in una società in rapida trasformazione come quella in cui viviamo, i disordini vanno intesi come un primo inevitabile movimento verso un nuovo equilibrio. Del resto hanno sempre avuto questa funzione e l’umanità è ben consapevole che la parte più difficile e imprevedibile del suo sviluppo non è il desiderio di cambiamento in sé, quanto la sua realizzazione.

È come indovinare la trama di un libro limitandosi a leggerne il prologo: è utile per farsi un’idea dello stile, ma non certo per anticiparne la conclusione. Buttare via il volume, però, non è mai una buona idea: che ci piaccia o no, in quelle pagine è scritto il racconto della nostra esistenza futura.

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