Con l’invasione russa dell’Ucraina la missione di Vladislav Surkov è conclusa, o fallita. Considerato il principale – non unico – ideologo del putinismo per più di un decennio, Surkov aveva creato il partito del presidente, Russia unita, nei primi anni Duemila ed elaborato una serie di principi e iniziative che, secondo lui, avrebbero permesso allo stato russo di assicurarsi il bene più prezioso: la stabilità.

L’ossessione per la stabilità e centralizzazione del potere è parte della tradizione russa, e nasceva anche dal trauma recente del crollo dell’Urss e degli anni – di povertà, anarchia politica, ma anche libertà di espressione – di Boris Eltsin. Presentatosi come il portatore dell’ordine dopo il “caos”, del ritorno alla statualità (deržavnostʹ), Putin al suo arrivo al potere nel 1999 aveva come prima cosa iniziato una guerra di una violenza inaudita contro la repubblica separatista cecena.

Lo scopo era duplice: prendersi la rivincita dopo l’umiliante ritirata dalla Cecenia nel 1996, ridando legittimità al potere centrale, e affermare un principio di controllo territoriale e politico su tutte le regioni russe, dissuadendo ulteriori spinte centrifughe.

Dopo l’attacco alle Torri gemelle nel 2001 c’era stata una breve finestra in cui la Russia si era presentata come alleata dell’occidente contro il terrorismo internazionale, in cui ufficialmente il nemico era comune ed esterno, e un’ideologia del potere non era un’urgenza. Ma le “rivoluzioni colorate” con cui nel 2003 e 2004 proteste popolari hanno portato al potere governi “filoccidentali” in Ucraina e Georgia hanno cambiato tutto, provocando uno choc nell’élite politica a Mosca, consapevole del suo minore controllo sulle repubbliche ex sovietiche e terrorizzata dalla prospettiva di un contagio democratico sostenuto dalle potenze occidentali.

È in risposta a queste rivoluzioni e queste paure – oltre che a importanti proteste a Mosca e San Pietroburgo – che Surkov, allora vicecapo dell’amministrazione presidenziale, ha esplicitato nel 2006 la necessità per il regime di un’ideologia ufficiale ed elaborato la sua idea di “democrazia sovrana” per giustificare, nei fatti, la costruzione sistematica di uno stato autoritario e conservatore: la Russia era democratica – rispondeva alle necessità del popolo – ma a modo suo; seguiva una strada autonoma che non ammetteva alcuna interferenza esterna né giudizio sulla natura del suo regime.

Questa strada avrebbe permesso di stabilizzare e modernizzare il paese, altro tema essenziale per Surkov, grazie a una macchina statale (e di sicurezza) efficiente, in grado di muovere i fili della società e della burocrazia in maniera sistematica e calcolata, come in una pièce teatrale.

Commedia dell’arte

È lo stesso Surkov (che prima di laurearsi in economia aveva studiato per tre anni regia teatrale) a fare il parallelo tra il sistema politico che ha immaginato e la Commedia dell’arte: uno spettacolo in cui c’è sì varietà di personaggi, ma limitata e prestabilita, in cui ogni attore è chiamato a incarnare una parte diversa del pubblico e dell’umanità.

La convinzione di dover offrire alla popolazione un’apparenza di pluralismo per garantire stabilità al regime è alla base della vaga idea di nazione russa che Surkov ha supportato e Putin accolto, soprattutto durante i suoi primi due mandati dal 2000 al 2008. Una nazione non definita in senso nettamente etnico e slavo-ortodosso ma multinazionale, e in cui convivono varie declinazioni di nazionalismo – dai nostalgici nazionalbolscevichi agli eurasisti di Aleksandr Dugin – a condizione che siano inquadrati nel sistema. Contrariamente a frange più nazionaliste e radicali che nel tempo hanno acquisito influenza nella cerchia putiniana, il riferimento culturale di Surkov resta sempre l’Europa, a cui guardare e da cui distinguersi in nome di uno storico eccezionalismo russo.

Se il contenuto preciso dell’ideologia surkoviana a volte sfugge, scandita da riferimenti confusi alla storia medievale, più di recente dall’applicazione della teoria dell’entropia al sistema putiniano, le sue idee hanno avuto un risvolto più che concreto, traducendosi in iniziative di ingegneria e comunicazione istituzionale che hanno dato la forma al putinismo per come lo conosciamo. È Surkov che crea attorno e a sostegno di Vladimir Putin Russia Unita, un partito di stampo conservatore senza contenuto ideologico chiaro, che diventa dal 2008 il partito dominante in tutto il paese.

È Surkov che crea ad hoc partiti di finta opposizione, media e centri di ricerca filogovernativi impacchettati alla occidentale e poi Naši, l’organizzazione giovanile patriottica e “antifascista” a favore di Putin modellata sul Komsomol’ sovietico e liquidata nel 2013. È sempre Surkov che viene ricordato per la distinzione tra “partiti sistemici” – ammissibili perché ufficialmente di opposizione, ma nei fatti pronti a sostenere Russia Unita in parlamento – dai partiti “antisistemici”, la vera opposizione a cui impedire con ogni mezzo la partecipazione elettorale.

Come l’intero regime putiniano, Surkov entra in una nuova fase nel 2012, a seguito delle proteste di massa contro l’insediamento della terza presidenza Putin. Surkov si dimette per presunti contrasti sulle riforme economiche con il presidente e la Russia vira nettamente verso l’autoritarismo: radicalizza il suo discorso di legittimazione del potere, dando più spazio a temi nazionalisti classici, alla Chiesa e all’identità ortodossa e russa; rafforza il tema del patriottismo e si rifà in maniera sempre più ossessiva alla memoria della Seconda guerra mondiale e la vittoria di Stalin sul nazismo come simbolo della grande potenza russa odierna.

È vero che il discorso politico e la politica estera di Putin avevano un contenuto antioccidentale e imperialista già evidente nel 2007 con il famoso discorso di Monaco e nel 2008 con i cinque giorni di guerra russo-georgiana, ma sono le proteste del 2012 ad accelerare il peggioramento delle relazioni con l’Ucraina che sfoceranno nell’annessione della Crimea e l’occupazione di parte del Donbass nel 2014.

Esportare il putinismo?

Pochi mesi prima di Majdan, nel settembre 2013, Surkov è richiamato al Cremlino e messo a capo di un nuovo dipartimento per le relazioni con le ex repubbliche sovietiche (leggi: Ucraina) e gli stati de facto (riconosciuti dalla Russia) di Abcasia e Ossezia del Sud in Georgia.

Documenti trapelati dal suo account e-mail di quei mesi provano il coinvolgimento diretto di Surkov tanto nei tentativi di organizzare rivolte nel sud dell’Ucraina contro il governo di Kiev – soprattutto attraverso una campagna mediatica e di propaganda – quanto nella scelta della leadership delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk sotto controllo russo.

Surkov ha in più occasioni affermato pubblicamente di non riconoscere l’esistenza dell’Ucraina come stato e di ritenere l’invasione russa del paese – l’espansione territoriale più in generale – un evento inevitabile e necessario alla stabilità interna del regime putiniano in questa fase.

Considerando che dal crollo dell’Urss queste idee sono sempre state più o meno presenti in parte dell’élite politica russa, Putin incluso, è difficile dire quanto Surkov abbia influito sull’andamento delle relazioni tra la Russia e Ucraina a partire dal 2014. Da un lato l’invasione dell’Ucraina e la rottura contestuale e irreversibile con l’occidente è in linea con quello che predicava da anni e che dovrebbe, a suo dire, sancire un’ulteriore tappa nella creazione di un regime che lui ritiene sopravviverà a Putin come il gollismo a De Gaulle.

Dall’altro, però, qualcosa è andato e potrebbe andare per il verso sbagliato. Tra i compiti del dipartimento diretto da Surkov c’era quello di mobilitare la popolazione russofona nel sud-est dell’Ucraina contro il governo ucraino e monitorare gli umori della popolazione (che ora abbiamo visto quali fossero).

Guardando all’andamento della campagna militare, mentre arrivano notizie non verificate che Surkov si troverebbe agli arresti domiciliari, l’automatismo tra invasione dell’Ucraina e rafforzamento del regime è tutt’altro che scontato.

In un suo articolo del 2020 in cui teorizzava le condizioni per la tenuta futura del sistema politico da lui creato, Surkov ha sostenuto che il modello putiniano, oltre che duraturo, si sarebbe esportato nel mondo. Se questo poteva sembrare ancora credibile tre mesi fa, la parata russa della vittoria del 9 maggio di quest’anno, fatta di solitudine del capo e di stantii riferimenti al passato, descrive al momento più una battuta d’arresto che il trionfo del Ventennio putiniano.

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