La notizia che non c’è. L’Europa è scossa da uno scandalo su una presunta corruzione da parte del Qatar che coinvolge politici ed ex politici delle istituzioni comunitarie. Ma in Qatar i media non ne fanno menzione.

Si parla di tutt’altro. Dei Mondiali di calcio che vengono descritti come i più spettacolari e meglio organizzati di sempre, un mantra cui offre il volenteroso contributo anche il capo del calcio mondiale, Gianni Infantino, che su questo fronte ha mobilitato il sito web ufficiale della Fifa.

Si dà grande rilievo alla «sessione ufficiale di colloqui» fra il presidente cinese Xi Jinping e l’emiro Hamin bin Hamad Al Thani, avvenuto nel corso del summit sino-arabo di Riad di venerdì e presentato come «rafforzamento del partenariato strategico».

Il sito della testata Al Arab trova modo di piazzare un elogio del sistema sanitario qatariota fatto da un tifoso statunitense, che afferma di avere ricevuto assistenza di alta qualità per risolvere un problema alla schiena. E il quotidiano in lingua inglese The Peninsula tocca un punto ineguagliabile di ironia involontaria ricordando che anche il Qatar ha celebrato la Giornata internazionale anti corruzione, che ricorre il 9 dicembre di ogni anno.

Celebrazione che avveniva nelle stesse ore in cui l’Europa prendeva atto di una possibile corruzione su ampia scala manovrata dall’emirato.

Stato di negazione

Nessuna sorpresa per chi segue i media qatarioti da tempo. Impossibile rimanere spiazzati da questo silenzio, poiché il Qatar è da mesi uno stato di negazione sprofondato dentro un universo parallelo e ossessionato dalla rappresentazione che dell’emirato viene fatta dai media internazionali.

A Doha hanno edificato una gigantesca bolla narrativa, nella quale viene vissuto il migliore dei Mondiali possibili ospitato dal migliore dei mondi possibili. E in questo contesto si assiste persino a sconcertanti rovesciamenti della realtà. Come quello fabbricato dal quotidiano Al-Watan, che con un articolo datato 10 dicembre ha tratteggiato con toni entusiasti il Mondiale vissuto dai lavoratori immigrati, che hanno potuto vedere le partite grazie al maxischermo installato nello stadio del cricket edificato in Asian Town.

Per chi non lo sapesse, Asian Town è un gigantesco shopping mall sorto nella periferia industriale di Doha per consentire ai lavoratori immigrati di consumare beni e tempo libero a basso costo, ma soprattutto per sottoporli a strategie del controllo. Dunque si tratta di un’ulteriore ghettizzazione della vasta popolazione che alimenta quotidianamente la (smisurata) ricchezza dell’emirato e ha pagato un enorme tributo di vite umane a Qatar 2022.

Ma per la narrazione da confezionare a uso e consumo interno quei lavoratori sono felici di stare lì, persino grati di aver ricevuto per l’occasione servizi supplementari come gli eventi culturali che coinvolgono artisti dei paesi d’origine degli stessi lavoratori e la linea wi-fi gratuita.

Una lunga e interminabile catena di rappresentazioni alternative, i Mondiali della post verità dove tutto è artificiale e tutto può essere comprato.

Giocato in stadi che possono essere edificati tramite assemblaggio di container come il 974, concepito in linea coi dettami di un’ingegneria post moderna e con l’intento di evitare un’eredità di cattedrali nel deserto.

E adesso che il deserto rimane ma la cattedrale è già in fase di smontaggio prima ancora che i Mondiali terminino, ecco che la Tunisia si dice pronta a prenderselo anche di seconda mano, come orgogliosamente annunciato ormai un anno fa dal ministro dello Sport, tunisino Kamel Deguiche.

In questo Mondiale artificiale si è provato a raccontare ogni cosa al contrario di ciò che è. A cominciare dalla partecipazione del pubblico, che ci si ostina a tratteggiare come se Qatar 2022 fosse una festa del popolo globale del calcio. A patto di non vedere i larghi squarci vuoti sulle tribune o l’abbandono massiccio degli spalti da parte della popolazione locale quando ancora le partite sono in corso.

O di ignorare le statistiche impietose presentate pochi giorni fa dal Guardian, in cui si spiegava come l’organizzazione abbia clamorosamente fallito l’obiettivo di 1,2 milioni di turisti-tifosi provenienti dall’estero (le cifre parlano di nemmeno 766mila presenze alla conclusione della fase a gironi, quella che richiama il massimo afflusso).

O infine di minimizzare la vasta aneddotica sui tifosi importati per sostenere la nazionale qatariota, o sui viaggi e i soggiorni pagati alle tifoserie di alcune squadre finaliste a patto che facessero da influencer via social per promuovere un’immagine positiva dell’emirato.

Corruzione non percepita

Tutto è finto, tutto si può comprare pur di raggiungere l’obiettivo e contrastare la pessima immagine che si diffonde all’estero. Per questo non si rimane spiazzati dall’apprendere che i tentativi di condurre manovre di questo genere siano arrivati nel cuore delle istituzioni comunitarie, toccando persino una vicepresidente del parlamento Europeo, la greca Eva Kaili.

Che lo scorso 1° novembre ha incontrato a Doha il ministro del Lavoro qatariota Ali bin Samiq Al Marri elogiando le riforme nel campo del lavoro avviate dall’emirato alla vigilia dei Mondiali e auspicando che vengano proseguite dopo la conclusione della manifestazione.

Nel corso della Giornata anti corruzione la signora Kaili è stata posta in stato di fermo dalla polizia belga. Nella sua abitazione di Bruxelles sarebbero stati rinvenuti quattro sacchi di banconote, ciò che ha reso possibile l’arresto per flagranza di reato che altrimenti non sarebbe stato realizzabile causa immunità parlamentare.

Davvero quei pagamenti provenienti dal Qatar rientrano nel quadro della vasta operazione di propaganda a sostegno dei Mondiali 2022? Forse sì, forse no. Lo stabilirà l’inchiesta della magistratura belga. 

Di certo c’è che nell’emirato la corruzione sembra un ordinario strumento di lavoro. La mobilitazione delle risorse disponibili in straordinaria abbondanza (a partire dal denaro) per raggiungere obiettivi d’interesse strategico.

E proprio l’assegnazione dei Mondiali 2022 all’emirato rappresenta un caso di scuola. Il vero architetto di quella candidatura è stato un imprenditore qatariota del settore petrolifero, Mohamed bin Hamman, che ha ricevuto pieni poteri dall’emiro pur di centrare l’obiettivo.

Bin Hamman, che nel frattempo è diventato presidente della Confederazione calcistica asiatica (ACF) e vicepresidente della Fifa, ha preso la missione estremamente sul serio mobilitando tutta la forza finanziaria del caso.

Il Sunday Times ha rivelato che ci sono stati numerosi scambi di denaro per ottenere l’assegnazione. Ma nella primavera del 2011 (appena pochi mesi dopo l’aggiudicazione dei Mondiali al Qatar) bin Hamman è stato travolto dallo scandalo legato al tentativo di comprare i voti delle federazioni caraibiche per condizionare la corsa alla presidenza Fifa in contrapposizione a Joseph Blatter.

Da allora bin Hammam è stato radiato dalla Fifa ma si ritrova messo da parte anche in patria, dove nessuno si sogna di nominarlo nei giorni in cui si svolge il Mondiale da lui costruito.

Altro prodigio dello stato di negazione, che ha cancellato lui unitamente al pranzo all’Eliseo del novembre 2010 che, sotto l’egida di Nicolas Sarkozy, è risultato forse decisivo per il voto del Comitato esecutivo Fifa.

E a negare sono anche coloro che un tempo contestavano la scelta di assegnare i Mondiali all’emirato. Come David Beckham, che quella sera del 2 dicembre 2010 era presente nella sede in cui si votava in qualità di ambasciatore della candidatura inglese contrapposta a quella qatariota. E che si era detto «disgustato» dall’esito del voto.

Adesso Beckham è ambasciatore del Qatar, dopo aver firmato un accordo decennale da 150 milioni di sterline (177 milioni di euro). Si può comprare un Mondiale intero, figurarsi il disgusto dell’ex Spice Boy.

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