La morte del capo dello Stato Islamico e successore del califfo al Baghdadi è arrivata prima di quanto pensassero molti addetti ai lavori. In base a rapporti dell’intelligence irachena lo si riteneva nascosto nell’impervia zona di deserto al confine tra Siria e Iraq, proprio dove l’Isis è nato e ha prosperato nel periodo d’oro del califfato jihadista.

Invece Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi, il cui vero nome era Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi, dirigeva l’organizzazione da un rifugio nell’ovest della Siria, in quella provincia di Idlib controllata dai ribelli islamisti che resistono alle truppe di Bashar al Assad.

Anche Abu Bakr al Baghdadi si era nascosto in quell’area, a Barisha, quando fu raggiunto dalle forze speciali americane nell’ottobre 2019. Qurayshi ha scelto il villaggio di Atme, a solo 15 chilometri da quello di Baghdadi e incredibilmente vicino alla frontiera turca.

Secondo alcuni analisti, il nascondiglio di Qurayshi si trovava a meno di 200 metri da un checkpoint di Hayat Tahrir al Sham (Hts), la coalizione islamista ribelle guidata dal jihadista al Julani che controlla Idlib, e a meno di un chilometro da una stazione della polizia e da un avamposto militare turchi.

Viene da chiedersi se dal 2019 nessuno si sia accorto della presenza del terrorista o dei suoi corrieri che raggiungevano la casa. Ai vicini aveva detto di essere un profugo di Aleppo scappato dal regime di Assad. Hayat Tahrir al Sham, in passato “imparentata” con al Qaida, ha perciò ospitato nel suo territorio i due leader dello Stato islamico, un gruppo rivale e spietato.

Ricercatori americani si domandano se i servizi di sicurezza di Hts siano incompetenti oppure abbiano qualche accordo segreto con gli Stati Uniti per la condivisione di informazioni. Questione che solleva vari interrogativi etici e politici sulla collaborazione con gruppi jihadisti.

A wreckage of an American helicopter is seen in Afrin region , Syria, Thursday, Feb. 3, 2022. After an overnight raid in northwest Syria. A U.S. official said one of the helicopters in the raid suffered a mechanical problem and was redirected to a site nearby, where it was destroyed. (AP Photo/Omar Albam)

Insieme a Camp Bucca

I due defunti leader dell’Isis avevano in comune anche il periodo trascorso nella prigione americana di Camp Bucca in Iraq, ritenuto un punto di radicalizzazione che ha permesso a molti estremisti di conoscersi e mescolarsi.

Grazie ad alcuni rapporti pubblicati dal centro antiterrorismo dell’accademia di West Point, sappiamo che Qurayshi a Camp Bucca ha fornito varie informazioni agli americani e in un certo senso ha tradito i suoi compagni jihadisti.

Il futuro capo dell’Isis era probabilmente molto imbarazzato da questa rivelazione. Era figlio di un muezzin di Ninive e nei primi anni Duemila era entrato in contatto con il gruppo Ansar al Islam guidato dal mullah Krekar, attualmente detenuto in Italia, per poi aderire al nascente Stato islamico dell’Iraq e della Siria, dove ha rimasto nell’ombra fino a scalarne i vertici.

Non sappiamo se il successore di Qurayshi avrà lo stesso background o verrà da altre esperienze. Possiamo affermare che sarà quasi sicuramente iracheno o siriano, perché la spina dorsale dell’organizzazione resta in Mesopotamia.

Qurayshi è stato annunciato meno di una settimana dopo la morte di Baghdadi, ma in questo caso la successione potrebbe richiedere più tempo. Non è noto se Qurayshi abbia designato un suo delfino o se saranno i dirigenti superstiti a sceglierlo.

Potrebbe crearsi una situazione di stallo con lotte intestine e scissioni tra pretendenti, ma non è da escludere anche il contrario, cioè che i dirigenti siano riluttanti ad accettare una designazione che equivale praticamente a una condanna a morte.

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La nuova organizzazione

Qurayshi aveva riorganizzato l’Isis in una struttura più adatta alla guerriglia e alla lotta clandestina. Il Consiglio dei delegati e il Consiglio della shura erano rispettivamente l’organo centrale esecutivo e quello direttivo-ideologico, ma vari membri di questi due consigli sono stati nel frattempo catturati o uccisi.

I superstiti sono braccati e nascosti, le comunicazioni sono lente e avvengono tramite corrieri fidati. Qualsiasi strumento tecnologico è stato escluso per evitare intercettazioni. Qurayshi aveva anche dato disposizioni affinché i comandanti locali potessero agire in autonomia operativa, come dimostrano le recenti operazioni contro la prigione controllata dai curdi in Siria e contro l’esercito iracheno a Diyala.

Nel primo caso lo Stato Islamico ha impiegato dozzine di militanti e ingenti mezzi per sferrare l’attacco alla struttura, dove sono detenuti migliaia di veterani del califfato, gestita dai combattenti delle Forze democratiche siriane.

Nel secondo caso, la cellula che ha ucciso undici soldati iracheni era composta anche da militanti arrivati dal Libano. L’approccio de-centralizzato inaugurato da Qurayshi prevede piccole cellule, “rabtas”, che agiscono in maniera clandestina e con tattiche di guerriglia.

Si rifugiano in aree desertiche dove costruiscono “madafat”, case sicure che di solito sono piccole baracche o cunicoli scavati nella terra. Hanno il compito di mantenere la pressione sulle forze di sicurezza irachene e sulle tribù sunnite, ma anche di attaccare gli odiati sciiti. La stessa tattica settaria viene impiegata dalla filiale afghana dello Stato islamico contro i luoghi di culto sciiti frequentati dalla minoranza Hazara.

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Cosa succede ora

Chiunque sarà il nuovo leader dell’Isis, l’organizzazione lancerà una campagna affinché le filiali sparse per il mondo rinnovino il giuramento di fedeltà, un segno di solidità e propaganda nonostante la perdita subita.

All’Isis converrebbe mantenere segreto il proprio vertice per proteggerlo dai raid americani, ma ha necessità di renderlo pubblico per giustificare il giuramento di fedeltà dei militanti. Ciò rende la leadership jihadista vulnerabile ma allo stesso tempo identificabile dai semplici combattenti.

Qurayshi ha tentato di mantenere un basso profilo mediatico, forse per paura di essere individuato, ma il prossimo capo potrebbe adottare una differente strategia.

Nonostante il successo di questa operazione antiterrorismo, sappiamo che la decapitazione dei vertici delle organizzazioni non porta alla fine del terrorismo, che spesso si regge sui quadri intermedi. L’uccisione di Abu Musab al Zarqawi nel 2006 ne è un esempio: l’escalation di violenza che ne è seguita e gli errori americani hanno facilitato la nascita dell’Isis.

L’occidente dovrebbe quindi non sottovalutare la minaccia che lo Stato islamico continua a porre, sia per la stabilità del medio oriente e del Sahel, ma anche per la sicurezza in Europa. In particolare, lo Stato islamico del Khorasan ha dimostrato di essere un avversario temibile per i Talebani in Afghanistan, mentre in Africa i jihadisti leali al califfato danno battaglia a quelli di al Qaida dal Mali al Niger, per espandersi verso gli stati meridionali.

Il fronte africano

I golpe in Burkina Faso e Mali non aiutano a garantire un’efficace azione antiterrorismo nella regione, con il ritiro della forza francese Barkhane, l’espulsione dell’ambasciatore di Parigi e il sostanziale stallo della task force Takuba, da cui si sono sfilati gli svedesi.

Proprio in Mali crescono le manifestazioni a favore dei mercenari russi del gruppo Wagner. Anche l’Italia schiera un contingente militare che ha appena raggiunto la full operational capability con forze speciali presso la forward operating base di Menaka, ma è già stato oggetto di un recente attacco di artiglieria da parte dello Stato islamico nel Grande Sahara.

L’Isis si è spinto fino in Mozambico e ha compiuto attacchi in Ruanda, Repubblica Democratica del Congo e Burundi, paesi fragili che rischiano di diventare santuari jihadisti in una dorsale che va dalla Somalia e passa per Kenya e Tanzania fino al Malawi.

La lotta contro il terrorismo dell’Isis è dunque tutt’altro che finita, ma il raid statunitense ha certamente assestato un duro colpo alla mente dell’organizzazione, che si era dimostrata altrettanto sanguinaria del suo predecessore.

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