«La pace esiste solo quando c’è una soluzione giusta e duratura, che riconosca i diritti del popolo palestinese», dice il direttore del Palestinian center for human rights
«A pochi giorni dall’inizio della guerra la mia casa è stata colpita da una bomba. Io ero dentro insieme alla mia famiglia. Ho capito che ero diventato un target e mi hanno consigliato di andarmene». A parlare è Raji Sourani, direttore del Palestinian center for human rights e una delle voci più autorevoli nel denunciare le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati. Oggi non è più a Gaza, ma da fuori continua a fornire il suo contributo facendo il coordinatore del team legale palestinese alla Corte penale internazionale.
«A Gaza serve tutto. Ma prima di tutto serve giustizia», racconta con tono fermo a Domani, dopo il suo intervento al festival su Gaza organizzato a Roma dal quotidiano Il Manifesto.
Come giudica questo accordo? Pensa che possa reggere?
Sicuramente abbiamo bisogno di un cessate il fuoco. È una delle richieste più urgenti e più antiche. Ma non possiamo chiamarla pace. La pace esiste solo quando c’è una soluzione giusta e duratura, che riconosca i diritti del popolo palestinese, a partire dalla fine dell’occupazione, dalle uccisioni, dalla distruzione e dallo sfollamento. Come possiamo parlare di pace quando Gaza è ridotta a un cumulo di macerie e morte? Quando non esistono più le condizioni minime di vita? Oggi a Gaza si pratica una politica di apartheid, di pulizia etnica, di genocidio. Tutto questo deve finire, altrimenti non ci sarà mai pace.
Con il cessate il fuoco in corso quali sono i primi passi da fare per ricominciare a vivere?
È difficile stabilire delle priorità, perché Gaza ha bisogno di tutto: cibo, sicurezza, cure mediche. Non ci sono più case, né acqua, né elettricità, né agricoltura. Per avere un uovo oggi servono sei mesi, perché non ci sono più galline né fattorie. Bisogna, però, restituire alle persone un senso di sicurezza, portare cibo, rifugi, cure. Ma la verità è che servirebbe una ricostruzione enorme: abbiamo circa 250mile persone ferite o amputate, centinaia di migliaia di traumi dopo due anni di guerra genocida. La gente ha perso tutto: case, reddito, dignità. La vita e la sicurezza vengono prima di tutto. E poi serve restituire alle persone un senso di giustizia. È fondamentale per il futuro.
Gli ospedali della Striscia non riescono a gestire un numero così alto di feriti.
È quasi impossibile. Trentasette ospedali sono stati completamente rasi al suolo, insieme a cliniche e laboratori. L’intero sistema sanitario di Gaza è stato distrutto. Abbiamo perso centinaia di medici, infermieri, farmacisti. Molti sono stati uccisi. Anche le università che formavano il personale sanitario sono state bombardate, i loro docenti uccisi. Chi è sopravvissuto porta ferite psicologiche profonde: dopo due anni di genocidio, nessuno può lavorare in condizioni simili senza traumi. Il sistema sanitario deve essere interamente ricostruito.
L'esercito israeliano ha giustificato i raid aerei contro le strutture sanitarie affermando che davano rifugio ad Hamas e contenevano le loro armi.
Israele non ha mai provato una sola di queste accuse. Niente può giustificare il bombardamento di un ospedale. L’ospedale arabo al-Ahli, per esempio, è stato colpito con 470 morti in un solo attacco. Anche lo Shifa, Tal al-Zaatar, e perfino l’ospedale Wafa per disabili. È disumano. In nessun altro conflitto della storia uno stato ha deliberatamente pianificato di colpire medici, ospedali e pazienti. È un’onta, non solo per Israele, ma per chi lo guarda fare tutto questo e continua a definirlo come “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Che ruolo gioca il senso di impunità per i crimini commessi?
Israele sa che nessuno lo chiamerà a rispondere. Da anni commette crimini contro l’umanità, persecuzioni, apartheid. E il mondo continua a trattarlo come una democrazia da difendere, continuando a fornire armi e immunità. Perfino quando la Corte Penale Internazionale ha osato indagare, alcuni governi occidentali hanno minacciato i giudici. È kafkiano.
Lei ora non può più tornare a Gaza. Ma le sue testimonianze sono state importanti per raccogliere prove alla Corte penale internazionale.
Ho lasciato Gaza solo dopo essere stato direttamente colpito a pochi giorni dall’inizio della guerra. Ero diventato un bersaglio. Mi hanno consigliato di andarmene, altrimenti mi avrebbero preso. Non avevo mai lasciato Gaza prima. L’ho fatto solo per continuare a lavorare con la Corte penale internazionale e con il Tribunale per i crimini di guerra. Ma il mio cuore è ancora lì.
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