In un’epoca di nostalgia, politica e non solo, ha vinto il premio Nobel per la Letteratura Annie Ernaux, la scrittrice che si è occupata in maniera vasta e ossessiva della memoria, cioè di un oggetto molto distante dalla nostalgia. La nostalgia è la scelta facile, dolciastra, la memoria è faticosa e non sappiamo mai che sapore potrà avere.

Affrontare i libri di Annie Ernaux è un’esperienza fondamentale per un lettore, e lo è per le ragioni profonde che legano la letteratura all’esistenza e a quei problemi timidi ma molto esigenti che sono il tempo e il contesto. La ricostruzione degli eventi reali, personali e proiettati nella loro dimensione universale, va sempre di pari passo con la scomposizione delle emozioni individuali e collettive.

La costruzione, dunque, si affianca sempre a un serio rischio di distruzione. Di sé e degli altri. Dentro questo esercizio complicato e spesso fallimentare, e per forza tragico, si accumulano gli errori e le frustrazioni. Per questo il problema più grande di chi scrive (autobiografia, ma anche, per vie tortuose, invenzione) è la memoria. Mi stupirei se incontrassi una scrittrice (o uno scrittore) in grado di affermare «sono molto soddisfatta della mia memoria e dei suoi esiti». L’essere perennemente insoddisfatti della propria memoria, e dei disastri che combina, è la condizione di chi scrive. Il tarlo da cui parte tutto.

La menzogna

Poi c’è il problema della menzogna. Nel momento in cui cominciamo a scrivere di noi stessi non solo incontriamo il dilemma della memoria insoddisfacente, ma mentiamo, pure. La pagina bianca è l’olio, la verità personale è l’acqua. Questa è una realtà conosciuta non solo a chi abbia provato a parlare di sé per iscritto, ma anche a chi ci abbia solo pensato, interrogandosi sul da farsi.

Alcuni decidono che questa contraddizione è superabile, e iniziano a raccontarsi per quanto meglio possono, nella speranza che da qualche parte si arrivi lo stesso: una verità parziale è meglio del silenzio. Altri non iniziano, stabiliscono che il racconto autobiografico non fa per loro, e che forse non può per definizione avere un grande valore: del resto il mondo della finzione, del racconto inventato, permette di dare ampio spazio ai propri assilli reali, evitando in parte (almeno in parte) i drammi dell’autobiografia.

Sicuramente il racconto inventato riduce il problema della sofferenza provocata agli altri, perché raccontare il vero significa scrivere di chi è stato o è ancora vicino a noi, e dunque mostrare pubblicamente e forse colpire e far del male, ed essere ingiusti.

Annie Ernaux ha piena coscienza dei rischi che corre, e lei per prima credo abbia avuto e abbia paura, quando scrive. Non si fida mai di sé stessa, ma proprio dentro questa sfiducia completa costruisce le sue pagine, scavando fondamenta profonde. Per via di questa sfiducia scrive e riscrive, e riesamina, e ci mostra la scrittura e la riscrittura, e il riesame.

L’esercizio nasce dalla piena consapevolezza dell’enormità dell’esercizio. «Ho sempre avuto voglia di scrivere libri di cui poi mi fosse impossibile parlare, libri che rendessero insostenibile lo sguardo degli altri». La vergogna (che è anche il titolo di una sua opera) è la prova suprema del racconto autobiografico, il suo certificato di attendibilità e dunque il suo biglietto d’accesso alla dimensione universale. «Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla». Ma soprattutto: «L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla». In questo sta la dimensione collettiva della scrittura.

Da dove iniziare

Molte persone che non hanno mai letto Ernaux si chiedono da dove iniziare, e questa domanda può essere semplice oppure no, e forse la risposta più corretta è la seguente: iniziate da dove volete, forse ricreando come meglio riuscite il percorso delle origini, dei traumi e dei successivi sviluppi, il percorso al quale Ernaux ha dedicato la parte maggiore dei propri sforzi.

Ha composto per noi un sentiero di letture ricco di indizi che puntano a un disegno. Forse. Un puzzle esistenziale, nel senso che Ernaux dedica a ogni libro uno spazio preciso. «Annie Ernaux è il nome di un puzzle», ha scritto una volta Le Nouvel Observateur. I puzzle, si sa, possono essere risolti cominciando da punti diversi. E non so se sia possibile costruire una strategia di gioco migliore, in questo caso. Non credo. Ma proverò, nominando alcune opere.

Lo spazio di memoria al quale Ernaux dedica ogni libro non è un frammento temporale definito, da questa data a quest’altra, ma è un frammento spirituale che trova spazio nella realtà, e dunque, come conseguenza, abita il tempo e la Storia.

C’è il libro sul padre, Il posto, quello sulla madre, Una donna. C’è L’altra figlia, che parla della sorella morta prima che Ernaux nascesse, e di cui Ernaux scopre l’esistenza per caso, da bambina, ascoltando una conversazione: «I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo». La sorella, in questo senso, diventa un simbolo dell’indicibile, dell’anti linguaggio. Di tutto quello che Ernaux cerca di superare, e pensarci è terribile.

Poi c’è il libro sull’età indifesa, i dodici anni: La vergogna. I genitori mandano la piccola Annie in una scuola cattolica privata, è l’unica del suo mondo ad andarci. Da allora Ernaux assocerà sempre la parola “privato” alla paura e alla chiusura. E scrivere diverrà il contrario del privato. «Scrivere è una cosa pubblica».

In Memoria di ragazza troviamo Annie diciottenne che va a fare l’educatrice in una colonia estiva, qui scopre il sesso e soprattutto il giudizio degli altri. Accanto a questo libro, per relativa prossimità temporale, quello sull’aborto giovanile, L’evento (che gran titolo). E anche il libro su come Ernaux apprende la propria disparità di donna, la catastrofe della disuguaglianza: La donna gelata. Per arrivare all’autobiografia impersonale del suo romanzo più esteso, che è anche una cronaca collettiva, la sua opera più nota in Italia, forse: Gli anni.

«Tutte le immagini scompariranno», dice Ernaux, e mentre lo dice noi ci sentiamo soffocare, ci sembra di trovarci già dopo la fine del mondo. Le immagini scompariranno, e noi con loro, e di noi non resterà nulla. E siamo grati a Ernaux quando ci mostra tutto il male e tutto il bene della memoria: le strade che percorriamo, le gerarchie sociali e morali, il chiacchiericcio, i gesti piccoli, le violenze.

Ernaux recupera la storia dal letto di un fiume dove si sono depositati gli oggetti perduti, usando la scrittura di chi dà le notizie essenziali, ma senza la certezza di saperle dare. Scriviamo con un perenne senso di mancanza. Fino a «salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più».

Il posto

Torno brevemente a parlare de Il posto, il libro sul padre, che mi sembra esemplifichi qualcosa. È un libro piccolo: siediti e leggilo. Il posto è lo spazio che un uomo occupa nel mondo, e fatta di spazio è la distanza che l’autrice ha creato fra sé e la sua famiglia negli anni, una distanza di classe perché Ernaux non nasce borghese, ma da adulta lo sarà. Una distanza che non ha nome: «Come dell’amore separato». Un tradimento. «Ricordi quando ti portava a scuola in bici?»

La famiglia di origini contadine diventa operaia e infine prova la strada del commercio al dettaglio: il negozio, fare economia, i creditori. Sarebbe facile creare un mito elementare, le piccole soddisfazioni, i bei tempi andati, «l’eterno ritorno delle stagioni, le gioie semplici, il silenzio dei campi». Ma non funzionerebbe, perché «mio padre lavorava la terra altrui, non ha visto la bellezza, lo splendore della Madre Terra e altri miti gli sono sfuggiti». 

La trama di una vita emerge via via dalle parole e dalle immagini, che danno forma e corpo a un uomo, e a tratti questo è un esercizio di arte plastica. «È nel modo in cui le persone si siedono e si annoiano nelle sale d’attesa, si rivolgono ai figli, salutano sui binari della stazione che ho cercato la figura di mio padre».

  

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