Ci si può commuovere di felicità all’assegnazione del Nobel per la letteratura? La risposta è sì, soprattutto in un momento storico in cui molti dei diritti che davamo per acquisiti rischiano di scricchiolare. Così vedere Annie Ernaux premiata «per il coraggio e l’acume clinico con cui ha svelato le radici, le rimozioni e i limiti collettivi della memoria personale» è conforto e forza.

Ho scoperto Annie Ernaux grazie alla casa editrice L’Orma, che in Italia ha pubblicato nove dei suoi romanzi. La prima volta che sono entrata nelle sue righe è stata con Il posto, un romanzo autobiografico che riesce a compiere uno dei miracoli della letteratura: trasformare l’esperienza individuale in dimensione universale, illuminare il passato sociale e storico, trasformarlo in memoria condivisa e indagine in cui si può dire “ero io e allo stesso tempo non ero più io.”

Nel libro Ernaux fa un esorcismo: distrugge il senso di colpa affrancandosi con dolorosa tenerezza dalla propria famiglia. Tutti i figli sono dei traditori: la profanazione del nucleo familiare è il sacrilegio necessario per distaccarsi da ciò che sembra l’unico destino possibile per noi, insinuato o imposto come la sola giusta strada da seguire. 

Scrive Ernaux: «Non sapevamo parlare tra di noi senza brontolare, la gentilezza dei toni era riservata agli estranei. Mio padre non aveva imparato a sgridarmi in maniera garbata, e io non avrei creduto alla minaccia di una sberla proferita in forma corretta. Per molto tempo la cortesia tra genitori e figli è stata per me un mistero». Così Ernaux agisce con consapevolezza lo strappo, abiurando le sue origini proletarie per passare dall’altra parte: dalla classe dominata a quella dominante.

Sezionare la verità

Se il mondo che narra è il racconto di sé e della sua famiglia, l’angolazione con cui lo inquadra è ogni volta sorprendente. Il linguaggio che usa, ancora di più: seziona la verità spogliandoci dalle nostre sovrastrutture, permettendoci di provare finalmente compassione per la nostra umanità scarnificata. Non è interessata al perdono, il suo imperativo è “scrivi solo ciò che sai”. E lei lo segue da sempre, partendo da sé.

Nel 1963 Annie Ernaux ha ventitré anni quando scopre di essere incinta. Il dottore che la visita le dice: «I figli dell’amore sono sempre belli». Sul suo diario lei annota: «È orribile: sono incinta». Ma decidere di interrompere la gravidanza in un paese in cui l’aborto è illegale la costringe a seguire le vie clandestine.

Così Ernaux fa quello che perseguirà per tutta la vita: lotta per diritti non ancora divenuti tali per dare un posto nel linguaggio a parole bandite come “aborto”, e utilizza l’arma più potente che ha: la sua scrittura. Ne L’evento racconta: «Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta… Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri».

Il romanzo esce in Francia nel 2000 (in Italia è stato tradotto nel 2019, sempre a cura de L’Orma) perché, come racconta Ernaux: «Per riuscire a catturare quel passato e farlo diventare presente, serve un’attesa». L’attesa è lo spazio necessario per far sedimentare la vita che accade, travalicare il proprio vissuto facendolo combaciare con quello di ciascuna di noi che tenta faticosamente la strada dell’emancipazione scontrandosi con un sistema «che impedisce alla donna di dirsi e di pensarsi».

Il personale è politico

La sua è una scrittura politica anche se, quando Ernaux negli anni ’70 inizia a scrivere, non si preoccupa di essere o meno una femminista: la sua urgenza è quella di denunciare la vergogna della subalternità e il disagio della solitudine che, in quanto donna, si trova a subire costantemente.

Così accade che per un certo pubblico è troppo schierata, mentre per le femministe che avrebbero preferito «libri di lotta» non lo è abbastanza. Ma i suoi sono libri di lotta, perché il personale è politico, e la prima persona singolare si fonde con la prima persona plurale in una perfetta simmetria nei suoi scritti.

Nel 1981, quando in Francia esce La donna gelata, Ernaux viene criticata perché scrive storie «troppo private». Eppure il racconto della segregazione in una vita domestica in cui si immaginava in due, e invece si ritrova spezzata a metà, è la storia di tutte. La sua rivolta ci ha aiutato a dare un nome alle cose: oggi sappiamo cos’è il carico mentale, ma nel 1981 era normale pensare (e lo è ancora, purtroppo) che la gestione e la cura fossero appalto esclusivo della moglie, e poi madre di famiglia.

Si è sempre fatto così, le veniva detto, e il coro greco attorno a lei – il marito, la famiglia – rispondeva con indignata irritazione a questa ragazza ingrata che scriveva piena di collera: «Mai la danza leggiadra, lo straccio passato con amore, i pomodori tagliati come boccioli dischiusi. Io andavo a passo di carica, in un incessante galoppo domestico per ritagliarmi un’ora della mattina, spesso una pia illusione, e soprattutto per precipitarmi verso la grande breccia della giornata, il tempo per sé, finalmente ritrovato, ma sempre minacciato; il pisolino di mio figlio». Il libro, all’epoca passato in sordina, oggi è studiato nelle scuole.

Appena ho saputo della vittoria di Ernaux, ho chiamato Lorenzo Flabbi – che oltre a essere il suo editore italiano insieme a Marco Federici Solari – è anche il bravissimo traduttore dei suoi romanzi, perché tutte le volte che ho avuto il privilegio di ascoltare Ernaux lui era sempre al suo fianco, e quel modo che hanno di camminare insieme racconta di un rapporto potente: attraverso le righe dei libri che lei scrive e lui traduce si parlano, e si avverte un bene profondo fra loro.

Così gli ho chiesto quanto fosse felice e lui mi ha dato una risposta bellissima: «Quando Annie ha vinto il premio Strega europeo ho riso come un matto, ma oggi, durante l’annuncio, ho perso un battito del cuore e ho pensato “non sta accadendo davvero”. Poi mi è venuto in mente che, esattamente un anno fa, quando Ernaux era nella rosa dei favoriti e il premio è stato assegnato a Abdulrazak Gurnah, ho ricevuto un suo messaggio in cui mi scriveva che non aveva mai pensato di poter vincere il Nobel, ma che era commossa di tutto l’amore che le era arrivato e che sperava di non aver deluso la casa editrice per questa mancata vittoria. Mi sembra straordinario che il Nobel sia andato a una scrittrice che ha una capacità così universale di parlare al cuore delle persone».

L’immagine più bella con cui ci siamo salutati è quella di loro due che, in tempo reale, si stavano scambiando dei cuori su WhatsApp, perché nella concitazione di queste ore non c’è il tempo per le parole che vengono sublimate da rossi cuori grondanti festa.

E visto che le coincidenze non esistono e nulla accade mai per caso, domani andrà in stampa il libro Il ragazzo di Annie Ernaux, uscito a maggio in Francia (nei primi 40 giorni ha venduto 120.000 copie), che L’Orma pubblicherà a novembre.

L’incipit è, come sempre, fatto di lame e schiocchi di fune: «Cinque anni fa ho passato una notte impacciata e goffa con uno studente che mi scriveva da un anno e voleva incontrarmi. Spesso facevo l’amore per costringermi a scrivere».

Lo studente con cui Ernaux fa l’amore ha trent’anni meno di lei. Non vedo l’ora di leggerlo.

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