L’idea che i popoli di origine africana debbano unirsi, salvaguardare gli interessi comuni e solidarizzare tra loro, ha ben più di cento anni. I primissimi concetti panafricanisti iniziarono a circolare a metà del XIX secolo negli Stati Uniti ed erano principalmente veicolati da afroamericani come Martin Delany e Alexander Crummel, così come da indiani come Edward Blyden. Il loro panafricanismo primordiale era una sorta di nazionalismo continentale (“Africa for Africans” era lo slogan usato), che puntava però anche a enfatizzare i punti in comune tra africani (e neri in genere) negli Stati Uniti. In tempi più recenti, il movimento panafricanista si è dato forme politiche e culturali che hanno fatto da base irresistibile alla liberazione di tutti i singoli paesi africani dal giogo del colonialismo. Gli obiettivi, oltre ovviamente alla decolonizzazione, erano definire i principi di pace, democrazia e diritti umani, e i campi di azione si estendevano dall’Africa ai Caraibi fino alle Americhe.

Il primo, grande risultato del movimento fu la costituzione dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua), nel 1963, a cui fece seguito, nel 2002, l’Unione africana (Ua). L’Oua fu una sintesi tra due scuole di pensiero: il gruppo di Casablanca puntava da subito a un’«Africa senza confini», con organi comuni e un unico esercito, il gruppo di Monrovia, invece, auspicava un’alleanza meno vincolante che portasse a una graduale cooperazione economica incentrata sullo Stato-nazione. Nel frattempo, gli sforzi si concentrarono per favorire quel difficilissimo passaggio dall’oppressione violenta e in alcuni casi genocidaria europea a una governance democratica.

Purtroppo questo processo, come era facilmente immaginabile, si è rivelato irto di ostacoli. Un secolo di colonialismo, la difficoltà di affermazione di modelli autoctoni in paesi lasciati nella miseria più completa, sfruttati e devastati, la presenza perpetuata di potenze dal background coloniale hanno ostacolato pesantemente la crescita e favorito l’accesso al potere di élite corrotte e inadeguate. A oggi, come scrive l’African Center for Strategic Studies, i partiti di opposizione, i media non allineati e il pensiero indipendente sono spesso violentemente soppressi in molte parti d’Africa. A molti partiti antigovernativi viene impedito persino di fare campagna elettorale e si assiste spesso a un ripetersi stanco di elezioni fraudolente o quanto meno poco trasparenti (Zimbabwe, Egitto, Tunisia, Repubblica Democratica del Congo (Rdc) solo per citare alcune tra le ultime e più clamorose, ndr). Secondo il report annuale di Freedom House sui diritti politici e civili, solo cinque paesi africani risultano «liberi». Diciannove sono classificati «parzialmente liberi» e i restanti 31 «non liberi». Il dato è confermato anche dall’Ibrahim Index of African Governance.

«Non riusciamo a respirare»

Per questo motivo, la moderna lotta per la libertà, la giustizia e la democrazia in Africa oggi assume nuove forme e trova nuovi nemici. La nuova sfida dei panafricanisti del XXI secolo è applicare alle nuove situazioni di oppressione i principi che hanno ispirato 50, 60 anni fa i movimenti di liberazione. Oggi, quindi, assistiamo a una rinascita del concetto di panafricanismo, ma in forme e obiettivi diversi.

Il bersaglio non sono più solamente i regimi coloniali o le strategie – ancora così diffuse in Africa – del cosiddetto postcolonialismo. Al centro delle lotte che i movimenti panafricanisti portano avanti con sempre maggiori forza e presa sulle popolazioni, ci sono le élite salite al governo nei decenni successivi alla decolonizzazione (talune aggrappate al potere da tempo immemore, come nel caso del Camerun dove il 91enne Paul Byaya è da 42 anni presidente, o dell’Uganda, dove l’80enne Yoweri Museveni lo è da 38).

Come hanno sostenuto due grandi madri del panafricanismo, entrambe scomparse nel 2023, Micere Githae Mugo e Ama Ata Aidoo, la liberazione nazionale non si esaurisce con l’indipendenza formale. Non a caso loro e tantissimi padri e madri del movimento panafricanista e della lotta anticolonialista sono stati incarcerati, perseguitati o addirittura uccisi dai loro stessi fratelli africani dopo o a ridosso delle indipendenze. «Il panafricanismo», afferma Nanjala Nyabola, un intellettuale keniano, «è stato rapito e gli appelli all’unità usati per giustificare violenza e repressione». Torna quindi di grande attualità la frase di Frantz Fanon, lo psichiatra della Martinica francese, militante della lotta algerina per l’indipendenza, tra i mostri sacri del panafricanismo: «Quando ci ribelliamo non è per una cultura particolare, ma semplicemente perché non riusciamo più a respirare» (rievocata anche dal movimento nato dopo l’uccisione di George Floyd negli Usa, I can’t breathe). Solo che la mancanza d’aria, adesso, è soprattutto provocata dalle classi dirigenti al potere in molti paesi africani. E siccome il panafricanismo vede la democrazia come un processo continuo in cui i cittadini partecipano collettivamente e si mostrano solidali verso chiunque, nel continente, sia vittima di abusi, si stanno moltiplicando gruppi di azione ispirati agli ideali dei padri. “Y’en a Marre” in Senegal, “Balai Citoyen” in Burkina Faso, “Filimbi” e “La Lucha” nella Rdc, sono solo alcuni esempi di movimenti formati da decine di migliaia di giovani che stanno letteralmente reinventando il panafricanismo. Negli ultimi anni, questi gruppi hanno girato l’Africa portando sostegno ad attivisti o inscenando manifestazioni per richiedere democrazia e diritti. Il neo presidente del Senegal Faye, il più giovane capo di stato della storia d’Africa, si è dichiarato «panafricanista di sinistra».

«I nostri padri», scrive Ngũgĩ wa Thiong’, il grandissimo pensatore keniano noto per il testo Decolonizzare la mente, « hanno combattuto con coraggio. Ma sapete qual è l’arma più grande che il nemico ha sfoderato contro di loro? Non il cannone Maxim, ma la divisione». Un concetto che i panafricanisti moderni hanno deciso di tener ben presente.

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