In Romania la salute sessuale e riproduttiva di donne e ragazze, compreso il diritto all’aborto e l’accesso ai diversi metodi di contraccezione, è stata significativamente compromessa. A confermarlo è l’ultimo report di Human Rights Watch (HRW) che racconta come nel paese le autorità non solo non garantiscano il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, ma lo ostacolino deliberatamente.

Nel lavoro di ricerca sono state raccolte 64 testimonianze di donne, operatori e operatrici sanitari e attiviste. Tra queste spicca la storia di una giovane di 19 anni ingannata da un centro anti-abortista e abbandonata dal sistema sanitario: la donna è stata costretta a portare a termine una gravidanza indesiderata, con gravi conseguenze personali e professionali.

Aborto e obiezione di coscienza

La Romania ha una storia cupa in materia di diritto alla salute sessuale e riproduttiva. Già nel 1966 il governo dell’epoca adottò un decreto che imponeva severe restrizioni alla contraccezione e all’aborto per favorire la crescita demografica. Per garantire il rispetto del decreto, il governo monitorava lo stato riproduttivo delle donne attraverso informatori e visite mediche umilianti, a cui assistevano addirittura agenti di polizia.

A causa di queste restrizioni, molte donne e ragazze con gravidanze indesiderate si sottoposero ad aborti non sicuri, portandone alla morte almeno 10mila. Quando il decreto fu abrogato, nel 1989, la Romania aveva il più alto tasso di mortalità materna in Europa.

Nonostante, a oggi, l’aborto volontario sia legale fino alla 14esima settimana di gravidanza, Human Rights Watch ha riscontrato che un numero crescente di medici e ospedali pubblici non forniscono più questo servizio. I medici invocano frequentemente l’obiezione di coscienza e alcuni ospedali negano completamente l’accesso all’aborto.

La situazione, negli ospedali, è allo sbando: alcuni medici applicano male le leggi e le linee guida sugli aborti volontari, anche rispetto al limite legale per l’aborto farmacologico. Altri medici, inoltre, giustificano il rifiuto di fornire aborti volontari con l'impossibilità di ottenere un’assicurazione contro la negligenza medica, compromettendo ulteriormente l'accesso alle cure.

Ma i problemi riguardano anche il mondo educativo: le ricercatrici, infatti, hanno segnalato che le persone giovani subiscono le conseguenze della carenza di un’educazione sessuale basata su evidenze scientifiche nelle scuole.

Gli accordi tra chiesa ortodossa e governo

Song Ah Lee, autrice del report, racconta a Domani che le attiviste rumene «hanno lottato per decenni per ripristinare i diritti sessuali e riproduttivi nel loro paese», ma oggi si trovano ad affrontare preoccupanti restrizioni. Un numero crescente di ospedali pubblici sta eliminando le interruzioni volontarie di gravidanza tra i propri servizi: «Sia attraverso un ordine amministrativo ufficiale, sia con decisioni informali».

Ah Lee racconta che esistono dei parallelismi tra la Romania e l’Italia in merito all’obiezione di coscienza: «Sembra che il vostro paese si trovi ad affrontare un problema simile a quello della Romania, dove l'accesso all'aborto esiste sulla carta, ma è impedito da una diffusa obiezione di coscienza».

C’è poi il ruolo della Chiesa ortodossa rumena che detiene una notevole autorità ed è uno dei principali fornitori di assistenza sociale in Romania, lavorando a stretto contatto con le istituzioni statali anche nel settore sanitario, attraverso un protocollo che formalizza la collaborazione tra Chiesa e Stato nella fornitura di servizi sociali: «L'aspetto preoccupante è che queste collaborazioni avallano la legittimità alle attività anti-aborto in cui la Chiesa è impegnata», svolgendo un ruolo attivo nell'attivismo antiabortista anche attraverso il sostegno all'annuale Marcia per la Vita, co-organizzata con Ong antiabortiste.

I centri di gravidanza di crisi

Ah Lee ricorda che la Chiesa ortodossa rumena «ha sostenuto i cosiddetti centri di gravidanza di crisi (Cpc), noti per promuovere la retorica anti-aborto». Questi centri si presentano come un'organizzazione che offre sostegno alle donne e alle ragazze incinte, ma la loro vera missione «è quella di dissuadere le donne e le ragazze dal cercare assistenza per l'aborto».

I Cpc dichiarano, su carta, di offrire alle donne incinte in situazione di vulnerabilità «l'accesso a cibo, alloggio e stipendio, in cambio che loro non abortiscano». Spesso, però, non danno seguito alle promesse, oppure forniscono il sostegno «solo per un periodo limitato».

Una situazione simile accade anche in Italia con i movimenti anti scelta, come Domani ha raccontato a più riprese. Human Rights Watch ha scoperto anche che alcune istituzioni pubbliche «hanno collaborato formalmente con i Cpc, accreditandoli come fornitori di servizi sociali e consentendo loro di condurre consulenze per le donne che volevano accedere all’aborto».

I centri, infatti, sono gestiti principalmente da ong e attivisti anti-aborto a stretto contatto con istituzioni religiose, come le chiese protestanti e la Chiesa ortodossa rumena. La Romania, dunque, sta violando impunemente i suoi obblighi in materia di diritti umani, mettendo in pratica un pericoloso connubio tra istituzioni e realtà confessionali.

Un piano ben preciso per minare diritti e salute di donne e ragazze in un paese membro di quell’Unione europea che aveva inserito il diritto all’aborto all’interno della propria Carta dei diritti fondamentali.

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