Il primo di ottobre la polizia nazionale del Ruanda e l’investigation bureau hanno annunciato di aver smantellato una cellula terroristica che si preparava a compiere attentati nel paese. Dodici uomini e una donna sono stati mostrati ammanettati ai giornalisti. I tredici sono accusati di appartenere alla rete islamista dell’Allied Democratic Forces (Adf), attivo nella regione del Nord Kivu della Repubblica democratica del Congo, e degli insorti di Ahlu Sunnah wal-Jamaah (Aswj) in Mozambico. Nel 2021 ricercatori della George Washington University e del King’s College di Londra hanno indagato il legame dei due gruppi ribelli africani con lo stato islamico e sono entrambi giunti alla conclusione, su cui altri mostravano più cautela, che effettivamente si siano affiliati all’Isis a cominciare dal 2017.

Il gruppo jihadista, all’epoca ancora guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, prese una decisione strategica di espansione in Africa, partendo dal Sahel e dal Corno d’Africa, per poi estendersi verso sud fino alla regione dei grandi laghi. Lo stato islamico offre un marchio noto e temuto, mentre i gruppi locali forniscono manovalanza per la causa. Entrambe le sigle hanno ricevuto fondi e fanno parte della wilaya dell’Africa centrale (Iscap) coordinata dal maktab al-Karrar, l’ufficio basato in Somalia che invia addestratori in tutta l’Africa orientale e centrale.

Il piano

I sospettati ruandesi sono stati arrestati in varie regioni del paese, nelle perquisizioni è stata rinvenuta anche un’ingente quantità di esplosivo, cavi e video di propaganda. Due hanno confessato davanti alle telecamere di essere stati reclutati da un keniota arrivato dal Mozambico, che li avrebbe addestrati all’uso di esplosivi per compiere attacchi di ritorsione per l’intervento delle truppe ruandesi nella regione di Cabo Delgado, che ha spazzato via l’occupazione jihadista. Il piano prevedeva di far esplodere una bomba in un negozio di elettronica di Kigali al passaggio di una comitiva turistica e un altro ordigno presso una pompa di benzina vicino alla stazione dei bus della capitale.

Il Ruanda è un paese a maggioranza cristiana ma c’è una rilevante comunità musulmana sunnita, in egual misura tra l’etnia Hutu e quella Tutsi. I maggiori investimenti arabi nel paese, in infrastrutture come in propaganda islamica, arrivano dal Qatar e dagli Emirati. Non è da escludere che lo stato islamico nella regione cercherà ancora vendetta contro il Ruanda, nonostante gli arresti della cellula a Kigali. Il paese ha introdotto nel 2018 una legislazione antiterrorismo che consente di intervenire per molte fattispecie di reato.

In Mozambico e Congo

La guerriglia in Mozambico, invece, risale al 2017, quando i militanti di Ahlu Sunnah wal-Jamaah hanno giurato fedeltà all’Isis e hanno cominciato ad attaccare caserme nella provincia di Cabo Delgado, dove i musulmani costituiscono circa il 57 per cento della popolazione. Il gruppo ha origine in una setta salafita della città di Mocimboa da Praia, quando nel 2014 giovani mozambicani furono radicalizzati da predicatori tanzaniani, somali e kenioti, tra cui lo sceicco Abud Rogo Mohammed.

Dopo una serie di arresti, i superstiti del gruppo si diedero alla macchia e passarono alla lotta armata, raggiunti da volontari della Tanzania e dell’Uganda. Alcune ricerche sostengono che gli islamisti abbiano fatto proseliti tra i musulmani impoveriti della provincia, vittime delle compagnie petrolifere che operano nella regione, tra cui Total, Eni e Anadarko, e dei soprusi della britannica Gemfields che estrae rubini dalle miniere espropriando la terra dei contadini. Dalla provincia di Cabo Delgado alcuni militanti furono mandati in Congo, per dirigere la nuova filiale nata dall’Adf. In quella regione imperversa la guerriglia, in particolare nel Nord Kivu, che coinvolge non solo i jihadisti, che si fotografano in preghiera con bandiere nere nella foresta, ma anche altre sigle politiche di insorti, tra cui i responsabili della morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci.

Ruanda e Sudafrica

Nel 2020 i jihadisti del Mozambico sono riusciti a conquistare il porto di Mocimboa da Praia e nel marzo 2021 hanno preso d’assalto la città di Palma, prima di essere ricacciati nella foresta dalla forza di spedizione ruandese composta da mille soldati e poliziotti. La polizia del Ruanda, che dal 2017 è stata addestrata in tattiche antiterrorismo dai carabinieri del generale Stefano Dragani, ha combattuto i jihadisti in prima linea, più dell’esercito.

L’Arma mantiene ancora una presenza a Kigali, nonostante l’ambasciata d’Italia competente abbia sede in Uganda. Il contingente ruandese è stato poi raggiunto da truppe della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), in particolare del Sudafrica con 1.500 uomini e da minori contributi di Botswana e Angola. Pretoria avrebbe voluto la leadership politico-militare delle operazioni in Mozambico, perché si ritiene la potenza regionale indiscussa dell’Africa meridionale, ma quel ruolo le è stato scippato dal Ruanda, con il beneplacito occidentale. In questi mesi il piccolo paese è stato definito la Sparta africana o una Svizzera del continente nero, per gli alti standard raggiunti dalle istituzioni e nella crescita economica. È indubbio che il successo di Kigali derivi da un investimento politico dell’Europa e degli Stati Uniti, che vogliono fare del Ruanda un modello di sviluppo che possa fungere anche da gendarme regionale con forze di sicurezza efficienti.

Prima del decisivo intervento ruandese, l’esercito mozambicano faceva infatti fatica a respingere le offensive jihadiste e aveva persino chiesto aiuto ai mercenari russi del gruppo Wagner, con scarsi risultati e perdite. A settembre il presidente del Ruanda, Paul Kagame, ha visitato le truppe e confermato che la presenza militare resterà in Mozambico per garantire stabilità nella fase di ricostruzione. Kagame ha però avvertito che i ruandesi non resteranno a lungo, forse perché ha interesse che anche il contingente sudafricano si ritiri. Il giorno dopo gli arresti della cellula a Kigali, il Sudafrica ha annunciato di aver ucciso in un attacco sedici jihadisti tra cui il comandante Rajab Awadhi Ndanjile. La competizione con il Ruanda è perciò ancora in corso.

Il Malawi possibile obiettivo

Secondo i dati del consorzio di ricerca american Acled, due terzi dei feroci attacchi dell’Isis in Mozambico sono stati diretti a civili della provincia di Cabo Delgado, provocando la morte di oltre 3300 persone. La violenza ha prodotto anche ottocentomila rifugiati interni su una popolazione regionale di 2,3 milioni, che si sono riversati nelle province dell’entroterra mozambicano. Proprio questa regione interna e rurale rischia ora di diventare un santuario jihadista, specialmente nelle regioni di Cuamba, Lichinga e Cobue, al confine con Malawi e Tanzania dove, secondo gli analisti di Ihs Markit, il gruppo cercherà di espandersi. Il Malawi, in particolare, è ritenuto da esperti dell’intelligence (anche italiana) come il possibile prossimo obiettivo dello stato islamico nella regione. Si tratta di uno stato con istituzioni fragili e poco attrezzate, il confine poroso tra Malawi e Mozambico è scarsamente sorvegliato e viene utilizzato per il traffico illecito di migranti verso il Sudafrica, oltre che per il traffico di droga che arriva dal Pakistan in Mozambico.

Il Malawi ha una cospicua comunità musulmana sunnita, tra cui potrebbero annidarsi alcuni radicalizzati come in Rwanda, con la differenza che la polizia del Malawi non ha la stessa capacità operativa e non dispone neppure di un reparto antiterrorismo. Il paese affacciato sull’omonimo lago potrebbe diventare un rifugio per i guerriglieri jihadisti braccati in Mozambico.

La riunione presieduta dall’Italia della coalizione anti-Isis, tenutasi a fine giugno a Roma, ha prodotto un comunicato finale, che rimarca l’importanza di concentrare gli sforzi antiterrorismo in Africa, continente vulnerabile che potrebbe assistere ad un nuovo afflusso di combattenti stranieri, oltre a costituire una diretta minaccia per attacchi verso l’Europa.

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