Il 23 giugno 2022, prima del Consiglio europeo, si è svolto un incontro tra i vertici dell’Ue e dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del nord, Montenegro e Serbia, ognuno rappresentato da un politico di primo piano). Oggetto della discussione sono stati il processo di allargamento dell’Unione alla luce dell’aggressione russa ai danni dell’Ucraina.

Tra i partecipanti, le reazioni all’“operazione militare speciale” sono state assai differenti: si va dalla condanna dell’aggressione e allineamento alle sanzioni europee, come ha fatto la Macedonia del nord, a una più vaga condanna senza l’applicazione di sanzioni (Serbia), all’appoggio incondizionato dell’invasione (nel caso di Milorad Dodik, membro in quota serba della presidenza tripartita della Bosnia). La posizione di Dodik è però lungi dal rappresentare l’unanimità a Sarajevo, anzi: nel paese balcanico la tensione è molto alta e l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe contribuire a far precipitare la situazione, tanto che in molti si domandano se la guerra possa scatenare un effetto domino in una delle regioni più instabili del vecchio continente, i Balcani, appunto.

Motivi di tensione

Le acque (mai calmissime in Bosnia-Erzegovina) hanno ricominciato ad agitarsi già da molti mesi, quando lo stesso Dodik si è fatto promotore di politiche secessioniste sempre più spinte, volte a creare istituzioni parallele per la Repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia.

Messo sotto sanzioni da parte del Regno Unito e degli Stati Uniti, Dodik è però riuscito a far approvare dal parlamento di Banja Luka (la capitale dell’entità serba della Bosnia-Erzegovina) la creazione di un’agenzia del farmaco autonoma e l’istituzione di un sistema giudiziario parallelo; in seguito a queste decisioni, l’Alto rappresentante dell’Onu in Bosnia aveva definito possibile, nel novembre scorso, la disgregazione della confederazione bosniaca. L’agenda separatista di Dodik, come da lui stesso annunciato, dovrebbe ora prevedere lo sviluppo di un sistema fiscale parallelo prima di trattare il capitolo più scottante, la creazione di forze armate divise e autonome dall’esercito nazionale bosniaco. Queste azioni, se finalizzate, creerebbero una separazione de facto tra la Repubblica Srpska e il resto della Bosnia-Erzegovina, rimettendo apertamente in questione l’architettura costituzionale del paese definita negli accordi di Dayton del 1995 che misero fine alla guerra.

Tra gli scontenti dell’assetto attuale della Bosnia-Erzegovina non vi è però solo Dodik: negli ultimi mesi anche la componente croata e lo stesso governo di Zagabria hanno contribuito a esacerbare le tensioni, giocando la carta della legge elettorale della Federazione croato-musulmana – l’altra entità che compone la Bosnia – secondo loro penalizzante per la componente croata della popolazione.

In aprile il partito nazionalista croato di Bosnia (Hdz) ha presentato un disegno di legge secondo il quale ogni cittadino della Bosnia-Erzegovina sarebbe tenuto a dichiarare all’anagrafe la propria appartenenza a uno dei popoli costituenti (serbo, croato o bosgnacco) o a una minoranza nazionale, con il fine di garantire una rappresentanza elettorale che rispecchi le linee di faglia etniche del paese. Dragan Čović, leader dell’Hdz, ha provato anche a coinvolgere l’Ue nella disputa, inviando una lettera alle istituzioni europee nella quale denunciava i tentativi di riduzione dei croati allo status di “minoranza nazionale”.

Tra Budapest e Mosca

(AP Photo)

Lo scenario bosniaco è dunque più frammentato che mai, tra rivendicazioni nazionali croate e spinte centrifughe serbe. In questo clima da tempesta perfetta, l’Unione europea non è per il momento riuscita a dar vita a un processo di de-escalation in Bosnia, anche a causa dell’ostruzione dell’Ungheria. Budapest sta assumendo una posizione sempre più assertiva nell’area balcanica, sfruttando la generale instabilità: la vicinanza tra Dodik e Viktor Orbán è nota, ed eclatante è stata la mossa magiara di garantire asilo politico all’ex primo ministro macedone, Nikola Gruevski, condannato a sette anni di prigione in patria per abuso di potere. Inoltre, non va dimenticato che il Commissario europeo per l’allargamento e le politiche di vicinato è ungherese, fatto che garantisce una influenza non secondaria a Budapest nelle politiche Ue nei Balcani.

Sebbene l’Ungheria sembri ben attrezzata per estendere la propria influenza nella regione, è necessario non sopravvalutarne la posizione e guardare invece a chi ha interesse a destabilizzare tutta l’area compresa tra i Carpazi e l’Adriatico, ossia Mosca. Il maggior sponsor di Dodik è infatti il Cremlino, ancor più del presidente serbo Aleksandar Vučić, il quale cerca di protrarre un equilibrio impossibile tra Russia ed Europa, inviando ultimamente segnali di apertura verso occidente. Troppe le somiglianze fra la situazione delle Repubbliche separatiste del Donbass e del Kosovo perché Belgrado si mostri entusiasta delle manovre russe in Ucraina.

Il ruolo della Serbia

La Serbia può diventare un paese chiave per l’evoluzione dei Balcani: sostenere l’aggressione russa in Ucraina per portare sostegno alle “Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk” sarebbe sostenere una situazione simil-kosovara, e Belgrado non può permettersi di apparire incoerente rispetto alla questione del secessionismo e cambiare la sua posizione sull’indivisibilità degli stati. Per le stesse ragioni la Serbia continua a mostrare cautela per quanto riguarda le spallate della Repubblica Srpska in Bosnia, cautela che ha però spinto Banja Luka ad avvicinarsi sempre più all’orbita di Mosca. Per la Serbia, sostenere la Russia diventa sempre più difficile, e rimanervi legata tarperebbe le ali alle sue prospettive di sviluppo: negli scorsi mesi, Belgrado ha mandato segnali molto chiari sulla sua volontà di prendere le distanze da una Russia più povera, più isolata, più soggetta all’influenza cinese e che ha sempre meno da offrire (sia ai suoi cittadini che ai “fratelli slavi” serbi).

Muovendosi lentamente su un crinale molto stretto, la Serbia pare volersi smarcare da una Russia sempre meno attraente. In barba alla “fratellanza slava”, al sostegno di Mosca all’epoca dei bombardamenti Nato su Belgrado e alla teoria secondo cui “chi s’assomiglia si piglia” applicata ai regimi politici, come se fosse logico che gli autocrati Putin e Vučić dovessero avanzare a braccetto.

Considerati questi fattori, è comprensibile l’ira di Mosca di fronte al fallito viaggio di Lavrov a Belgrado del 6 giugno scorso: la decisione congiunta dei paesi confinanti (Ue e non-Ue: Bulgaria, Macedonia del nord e Montenegro) di chiudere lo spazio aereo al ministro degli Esteri russo mostra non solo un sorprendente coordinamento di alcuni paesi balcanici in politica estera – fatto raro – ma rende chiaro quanto Mosca abbia perso il suo ascendente nella regione.

Le mosse del Cremlino

Considerati questi fattori, è dunque logico che il Cremlino si appigli allo stato etnicamente e istituzionalmente più fragile dei Balcani – la Bosnia – per innalzare la tensione e recuperare influenza. Sarajevo, con il suo assetto confederato e la divisione etnica cristallizzata dopo gli accordi di pace del 1995, sembra essere lì apposta per portare scompiglio non solo tra serbi, croati e bosgnacchi ma anche tra ortodossi, cattolici e musulmani e per estensione a tutti i paesi della regione.

Se il Cremlino vede l’opportunità delle tensioni crescenti nei Balcani e in Bosnia per aumentare il livello d’instabilità nel continente europeo, un eccessivo coinvolgimento potrebbe avere l’effetto contrario, ossia allontanare da sé paesi neutrali o amici; come nel caso del Montenegro, dove, nel 2016, Mosca appoggiò, con tutta probabilità, il fallito golpe, spingendo Podgorica a virare con decisione verso occidente, ed entrare nella Nato l’anno successivo.

Per quanto riguarda la situazione bosniaca, si teme un supporto sempre maggiore della Russia alla Repubblica Srpska, con il timore che lo scenario scivoli sempre più verso una situazione simile a quelle della Transnistria, dell’Abcasia o dell’Ossezia del sud: indipendenza de facto di una parte del paese sfruttando le tensioni etniche, l’invio di armamenti e militari russi nella zona. Tuttavia, visto il non brillante comportamento dell’armata russa in Ucraina e la priorità di quel teatro per Mosca, è assai improbabile che la Russia abbia la volontà e le risorse per tentare un colpo di mano in quel di Banja Luka.

Influenza franco-tedesca

Sul versante europeo, la proposta del presidente francese Macron di una “confederazione politica europea” è stata accolta piuttosto freddamente nei Balcani, dove è stata vista come un’eterna anticamera all’accesso nell’Unione. Inoltre, le celerità con cui è stata spianata per l’Ucraina e la Moldavia la strada verso l’ottenimento dello status di paese candidato ha irritato i paesi balcanici nei confronti dei leader Ue.

È anche per questo che, prima della visita congiunta franco-italo-tedesca a Kyiv, Macron e Scholz hanno fatto tappa nella regione (l’inquilino dell’Eliseo in Romania e in Moldavia, il cancelliere in Serbia, Kosovo, Macedonia del nord, Grecia e Bulgaria).

Vale la pena di notare che il capo di governo tedesco sia andato nei Balcani più “ostici”, meritandosi perfino di essere rimbrottato da Vučić sul tema delle sanzioni alla Russia; questo perché il sostegno della Germania all’integrazione europea dei paesi della regione è di sicuro più sincero di quello francese. Parigi sembra voler conservare un approccio differente per quanto riguarda la regione, appoggiandosi ad alcuni paesi-chiave: la Serbia, con la quale condivide profondi legami storici (già tra tardo Ottocento e inizio Novecento la Francia puntò su Belgrado in funzione anti-austriaca e anti-tedesca), la Bulgaria, di cui ha preso le difese nella disputa identitaria con la Macedonia del nord (che sta creando grande scompiglio a Sofia e a Skopje) e, infine, la Grecia, che la Francia supporta contro la Turchia, a parole e nei fatti, attraverso la vendita ad Atene di navi da guerra e rafale.

Di converso, la Germania può vantare ascendenti storici, culturali e geografici che le permettono di essere più vicina e più presente nella regione: il bacino del Danubio ha contribuito a creare per secoli una connessione tra il mondo tedesco e i Balcani – esempio vivente ne è il presidente romeno, Klaus Iohannis, discendente dei Siebenbürger Sachsen, i sassoni di Transilvania. L’approccio tedesco può dunque basarsi su fondamenta più solide, con Berlino che si è fatta promotrice di politiche principalmente economiche per integrare la regione nella sua catena del valore, come accaduto per gli altri paesi della Mitteleuropa.

Più sopra si sottolineava la grande autonomia di manovra che l’Ungheria si permette nei Balcani, un’autonomia dovuta anche al mancato accordo tra le maggiori potenze europee (in particolare Francia e Germania) su come organizzare la regione. I paesi locali, troppo deboli e senza una potenza in grado di stabilizzare in maniera consensuale quell’area, sono oggetto dell’influenza delle nazioni interessate ai Balcani, storicamente strategici: non bisogna dimenticare che, nel 1914, è da qui che si accese la miccia che incendiò il continente.  

Le ambizioni turche

In ultimo, quando si parla di Balcani, e di Bosnia in particolare, non ci si può scordare del ruolo turco: Ankara per il momento sta alla finestra, forte del capitale politico accumulato in anni di esercizio di soft power nella regione, sfruttando essenzialmente il vettore religioso – particolarmente efficace e popolare presso i bosgnacchi, i musulmani di Bosnia. Ripercorrendo piste ottomane, la Turchia ha profuso uno sforzo considerevole per estendere la propria influenza nei Balcani, fattore di continuità di ogni potenza che abbia dominato gli stretti per assicurarsi solidi ancoraggi su entrambe le sponde dell’Ellesponto. Istanbul ha per ora mantenuto una posizione più defilata, ma la sua influenza in Bosnia non deve essere sottovalutata.

L’aggressione russa all’Ucraina è destinata a lasciare numerosi strascichi nel panorama politico del continente europeo: l’instabilità della regione balcanica e, più nello specifico, della Bosnia-Erzegovina, rappresentano un contesto pronto a infiammarsi, tra influenze francesi, tedesche, russe e turche. La guerra potrebbe fornire il pretesto per un’accelerazione dell’escalation nell’area balcanica, ma non è detto che non si riesca a raggiungere un equilibrio o perlomeno a non far scadere le ostilità in conflitto: per quanto riguarda lo scenario bosniaco, le spallate separatiste di Dodik sembrano aver subito una battuta d’arresto dopo l’intervento dell’Alto rappresentante dell’Onu, il quale ha bloccato una legge che prevedeva il passaggio di alcune proprietà statali bosniache alla Repubblica Srpska, e dopo la sospensione, da parte della Corte costituzionale bosniaca, della legge sull’agenzia del farmaco autonoma.

In ogni caso, la situazione in Bosnia dovrà continuare a essere monitorata, dal momento che Sarajevo si appresta a vivere una calda estate fino al prossimo ottobre, quando si celebreranno le elezioni a livello nazionale.

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