Anche quest’anno, nonostante il momento complesso per via di pandemia e tensioni internazionali, in occasione del 76esimo anniversario della “Grande guerra patriottica” che nella storiografia russa rappresenta l’immagine della forza militare, che ha liberato l’Europa dalla “peste marrone”, e della resistenza drammatica del popolo russo all’aggressione nazista, la piazza rossa è stata nuovamente protagonista della grande parata che concilia i nuovi simboli della potenza militare con i vecchi stendardi sovietici, racchiusi nella “sfilata del reggimento immortale” alla quale partecipano dal 2013 le persone che stringono a sé una foto dei loro cari, morti per difendere la Madrepatria.

Il valore di un’onorificenza

I titoli di Eroe dell’Unione sovietica e dell’Ordine della Gloria sono le principali onorificenze militari assegnate ai veterani di guerra che sono trattati con rispetto e riconoscenza dai propri connazionali e con benefici e misure assistenziali dal governo. Il 5 aprile scorso il presidente Vadimir Putin ha firmato alcune leggi che inaspriscono le sanzioni penali e amministrative sino a cinque anni di reclusione o una multa di cinque milioni di rubli (55mila euro) per la riabilitazione del nazismo sul web, la diffusione di informazioni false sui veterani di guerra e la denigrazione della loro dignità.

E proprio uno dei capi di imputazione rivolto al dissidente Aleksej Navalnyj riguarda la diffamazione nei confronti di un veterano, accusato di essere un “traditore” per aver partecipato ad un video a sostegno della riforma costituzionale del 2020.

La Grande guerra patriottica rappresenta i miti fondativi dell’unità nazionale, dell’orgoglio patriottico e la consacrazione dello status di super potenza dell’Unione sovietica che il presidente Putin ha sempre contrapposto all’idea di una potenza di “terzo o quarto rango” della Russia degli anni Novanta.

Si tratta di un anniversario laico che per il presidente Putin ha assunto ormai il significato di “un giorno sacro” ovvero di una festa di unità nazionale per ricordare il sacrificio del popolo russo che, combattendo tenacemente i nazisti (come descritto nel libro Leningrado. Memorie di un assedio di Lidija Ginzburg pubblicato da Guerini e associati), ha difeso le tradizioni e i valori della Russia moderna: il patriottismo, l’orgoglio nazionale, la solidarietà e la centralità dello stato.

Il 9 maggio, data di questa festa nazionale, rappresenta anche le contraddizioni dell’esperienza sovietica, espresse dai movimenti nazionalisti nelle repubbliche baltiche che consideravano i sovietici come invasori e non liberatori o da gruppi ucraini che avevano combattuto con i tedeschi contro il potere di Josif Stalin; un anniversario che è stato celebrato qualche giorno fa con una marcia in onore della divisione Ss “Galizia” a Kiev, suscitando il malumore del Cremlino e di alcuni membri del partito del presidente Volodymyr Zelensky.

La vittoria sovietica della Grande guerra patriottica ha comportato una progressiva ed efficace riabilitazione della figura di Stalin verso il quale il 51 per cento degli intervistati, in una rilevazione del 2019, prova affetto e ammirazione e il 13 per cento una totale avversione mentre nel 2001 i dati si attestavano al 38 per cento per l’affetto e al 43 per cento per l’avversione.

Politica della memoria

La celebrazione della Guerra patriottica fa parte della “politica della memoria” su cui la presidenza Putin ha investito molto anche in termini culturali attraverso la pubblicazione di manuali di revisionismo storico del periodo sovietico.

Ma è anche il giorno del discorso del presidente, considerato dagli analisti come un “termometro dello stato di salute” del rapporto fra la Russia e l’occidente. La rilevanza internazionale dell’evento è raffigurata dall’invito che il presidente Putin ha sempre rivolto ai leader occidentali, quasi a voler dimostrare il riconoscimento dello status di potenza da parte dell’occidente, come avvenne nel 2005 alla presenza di Jacques Chirac, Gerard Schröder e George Bush.

Una situazione che si è completamente ribaltata nel 2015 quando i leader occidentali hanno disertato la parata per esprimere la condanna verso l’annessione della Crimea.

Rispetto alla celebrazione del 2020, posticipata al 24 giugno a causa della pandemia alla presenza di dieci capi di stato dei paesi dell’ex Unione sovietica, un anno dopo il presidente Putin ha sfilato insieme al suo omologo tagikistano, Emomali Rahmon, e ha pronunciato il discorso più lungo da quando è in carica.

Un tratto comune dei suoi discorsi, ma anche dei documenti strategici di politica estera e di difesa, è il riferimento alle minacce per il paese che sono mutate nel corso degli anni: il terrorismo dal 2002 al 2005, l’estremismo dal 2006 al 2007, l’interferenza esterna dal 2012 al 2013, l’unipolarismo nel 2015, la distorsione della verità nel 2019, la difesa del diritto internazionale nel 2020, gli interessi nazionali e la sicurezza del popolo nel 2021.

Tuttavia il passaggio più significativo del discorso è nelle seguenti parole: «È stato il popolo sovietico a dimostrare l’ultimo eroismo. Durante i momenti più duri della guerra, durante le battaglie cruciali che determinarono il corso della lotta contro il nazismo, la nostra nazione era sola sulla strada faticosa, eroica e autosacrificante della vittoria». Nel 2015 Putin aveva ringraziato la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti per il loro contributo alla vittoria; ora il presidente ha sottolineato che l’Urss era sola, un’affermazione in continuità con quella del 2020: «Non oso immaginare cosa sarebbe accaduto al mondo se l’Armata rossa non avesse vinto. È stata l’Urss a battere il nazismo». Qual è il significato politico di queste parole?

Per alcuni riflettono i sentimenti di un uomo che si sente abbandonato, tradito, circondato da nemici e senza alleati; per altri è il tentativo di sfruttare l’orgoglio patriottico di una Russia contro il resto del mondo per le prossime elezioni parlamentari. O, forse, più semplicemente il 9 maggio è la dimostrazione plastica di un passato che non passa.

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