«Viviamo tutti nel mondo di Putin», ha scritto il politologo Ivan Krastev all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. Dopo tanto strologare e sentenziare sul fatto che l’autocrate russo vivesse in un «altro mondo» (Angela Merkel), abitasse «sul lato sbagliato della storia» (Barack Obama) e fosse intrappolato «nel Diciannovesimo secolo» (John Kerry), in un attimo fatale e tremendo tutto il mondo si è reso conto che Putin non era segregato in una realtà parallela, non era la scoria di un mondo obsolescente in attesa di essere smaltita.

Il suo mondo, fatto di rapporti di forza, istinti etnonazionalisti, apocalissi identitarie, mire espansionistiche e pretese violente, è anche il nostro mondo. La guerra portata dalla Russia su vasta scala, erede di molti altri conflitti sanguinosi ma ignorati o sottovalutati perché percepiti come accettabili scosse di assestamento regionali in vista della formazione di un nuovo assetto globale, ha squarciato il velo delle illusioni sull’inevitabilità dell’affermazione del modello liberale dopo il collasso dell’alternativa sovietica.

Ha certificato nel modo più violento e brutale possibile che non c’era nulla di automatico nella formazione di un ordine globale di impronta democratica, assicurato dallo stato di diritto, reso prospero dal mercato e sorvegliato dalle istituzioni internazionali. Era una desiderabile congettura scambiata per un destino.

È il difetto di tutte le spiegazioni dei fenomeni sbilanciate sulla dimensione del «post»: dopo la fine della Guerra fredda l’occidente liberale si è concentrato su quello che sarebbe venuto dopo, immaginando erroneamente che il «prima» fosse archiviato per sempre. Il gran conflitto fra modelli politici, impianti ideologici e stili di vita si era concluso con la vittoria schiacciante di una parte, la storia aveva emesso la sua sentenza e si era limitata a finire, secondo la formula di Francis Fukuyama che generazioni di commentatori si sono prodigati per banalizzare fino a farne una massima da dolcetto della fortuna.

I giornalisti degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ricorda sempre Krastev, si riferivano al presente come al Dopoguerra; con il beneficio della prospettiva storica si è trasformato nella fase fra le due guerre, tremendo periodo di incubazione di tensioni politiche e oscurità ideologiche che hanno riversato il loro potenziale distruttivo nell’ascesa del nazifascismo e poi nella Seconda guerra mondiale. Era difficile, dall’osservatorio del presente, immaginare che il futuro sarebbe stato così tremendamente simile al passato. Anche alla fine di quella nuova tragedia si sono fissati i tratti di un nuovo inizio ancorando le speranze a un nuovo «post». La mastodontica opera di Tony Judt Dopoguerra.

La nostra storia dal 1945 ha percorso la ricostruzione europea sulla base della cesura fra un «prima» saldamente chiuso nella teca della storia e un «dopo» che ha enunciato le sue promesse di rinnovamento nell’«ora zero». Anche quella era una stagione fettolosamente definita dal suffisso «post». In modo simile, la fine della Guerra fredda ha inaugurato l’era del «mondo unipolare», la globalizzazione a trazione americana, l’affermazione della democrazia liberale e il mercato portato, se necessario, a colpi di shock therapy nei paesi dell’ex spazio sovietico, nella convinzione che anche la Russia post sovietica (appunto), dopo un opportuno percorso di transizione, avrebbe abbracciato un futuro già scritto. Ai margini della storia sarebbero rimasti, al massimo, minoritari regimi canaglieschi circondati da una civiltà irresistibile.

Quello era il mondo in cui due paesi che hanno McDonald’s non si sarebbero mai fatti la guerra, secondo la teoria di Tom Friedman, mentre ora che la catena di fast food più famosa del mondo ha abbandonato il regime di Putin i russi fanno la fila per mangiare hamburger russificati, e intanto dagli smartphone assemblati in Cina guardano quello che gli va ma non riescono ad accedere alle immagini del massacro di Bucha. E molti non ci crederebbero nemmeno se le vedessero. Che la storia sia andata diversamente si è capito molto prima dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, ma quello è stato l’evento che ha portato nella cronaca un fatto che dopo decenni di autosabotaggio dell’immaginazione era diventato inconcepibile, come un fossile di un dinosauro che improvvisamente prende vita. I segni che il mondo di Putin era reale, e non un fantasma del passato, erano sparsi ovunque.

Gli esempi più chiari sono l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, la Brexit, il rinascimento etnonazionalista dell’India di Modi, le derive autoritarie di Polonia e Ungheria, il protofascismo di Jair Bolsonaro, il neottomanesimo di Erdogan e la crescita della galassia di leader affini che compone l’internazionale nazional-sovranista. Ma c’erano anche affinità e sintonie meno evidenti che l’esplosione della guerra ha portato in superficie.

Ad esempio l’Italia, che non si è fatta mancare solenni professioni di euro-atlantismo negli ultimi decenni, ha aumentato in modo significativo la dipendenza dal gas russo anche dopo l’annessione della Crimea nel 2014, quando l’Unione europea ha sanzionato la Russia, e così hanno fatto anche molti paesi che ora fanno a gara per dare armi all’Ucraina e aumentare la spesa militare. Vivevano nel mondo di Putin quando firmavano i contratti per le forniture energetiche e vivono ancora nel mondo di Putin ora che si tratta di riarmarsi per rispondere alla minaccia.

Anche la dinamica della propaganda russa in occidente è istruttiva in questo senso. Si discute da anni di fabbriche di troll del Cremlino, di eserciti di bot e sofisticate operazioni di infowar, ma basta guardare un talk show a scelta per capire che siamo bravissimi a disinformarci da soli, non c’è nemmeno bisogno che Mosca paghi qualcuno per ripetere il suo messaggio sui media occidentali.

Anche nel tentativo di influenzare le elezioni americane, i russi hanno sostanzialmente assecondato e amplificato le divisoni all’interno del dibattito, sfruttando la polarizzazione ideologica e la cacofonia delle guerre culturali a proprio vantaggio. Era già tutto predisposto e servito, ma i leader occidentali erano troppo impegnati a dire che Putin era prigioniero di un mondo che sarebbe stato spazzato via dalla storia per rendersene conto.

I saggi raccolti in questo volume hanno diverse angolature, registri e prospettive; ma sono accomunati dal tentativo di inquadrare la realtà del mondo di Putin, evitando quell’errore di prospettiva che voleva ridurre il tiranno a nefasto rappresentante di una anacronistica resistenza illiberale destinata inevitabilmente all’assimilazione o alla sconfitta. La guerra in Ucraina ha aperto sotto i nostri occhi un nuovo, sconvolgente capitolo dell’orrore, ma non è la storia del mondo di ieri che ritorna contro ogni aspettativa e previsione. È la storia di un mondo che non se n’è mai andato.

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