Segno distintivo dell’era Barack Obama, i droni sono da vent’anni elemento chiave della guerra al terrore americana nonostante l’alto numero di vittime civili e i discutibili risultati raggiunti nel ridurre la minaccia terroristica. Rispetto all’11 settembre, il numero di estremisti islamici nel mondo è infatti quadruplicato e l’impiego di droni ha avuto effetti devastanti sulla popolazione, sia a livello fisico che psicologico. Con la presidenza di Joe Biden, però, l’approccio statunitense alla guerra dall’alto sembra stia finalmente cambiando.

Interim guidance

Subito dopo il suo insediamento, Biden ha riportato sotto il diretto controllo della Casa Bianca l’approvazione per gli attacchi con droni in contesti di guerra non ufficialmente riconosciuti, rendendo più stringenti le norme in vigore fino a quel momento. Ad oggi, i militari e la Cia devono richiedere l’autorizzazione al presidente prima di procedere con qualsiasi airstrike al di fuori delle zone di guerra convenzionali, rappresentate esclusivamente da Afghanistan e Siria.

Un cambio di passo importante rispetto alla presidenza di Donald Trump, che oltre ad aver sospeso la pubblicazione dei dati su attacchi e vittime collaterali, ha anche reso più semplice il ricorso ai droni. Fino a pochi mesi fa, militari e funzionari della Cia potevano procedere con la sola autorizzazione dell’ambasciatore americano nel paese in cui intendevano portare avanti l’attacco, se le condizioni sul terreno rispettavano determinati criteri.

In generale, Biden si è dimostrato particolarmente riluttante nell’approvare gli airstrikes: nei suoi primi undici mesi alla Casa Bianca ha autorizzato solo quattro attacchi contro i 1.600 registrati sotto la presidenza Trump nello stesso periodo di tempo.

Al centro della revisione avviata da Biden vi è inoltre la creazione di un quadro giuridico che tuteli maggiormente la popolazione locale, messa in secondo piano dalla precedente amministrazione: con Trump infatti gli attacchi potevano essere condotti anche se vi era soltanto una «ragionevole certezza» che nell’area interessata non ci fossero civili. Biden ha invece ripristinato il criterio della «quasi certezza» già adottato da Obama nel suo generale tentativo di rimediare all’abbassamento degli standard a cui si è assistito negli anni della presidenza Trump.

Poca chiarezza

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Tutte queste nuove procedure, però, non sono che delle linee guida provvisorie (interim guidance) da seguire in attesa di un reale cambiamento nella politica estera americana, che continua però a essere rimandato. Secondo gli analisti, l’approccio di Biden è al momento poco chiaro e rischia di trasformarsi nell’ennesima opportunità mancata.

Un semplice ritorno all’era Obama non è sufficiente e risulterebbe particolarmente miope a fronte dei risultati spesso controproducenti ottenuti con i droni. La guerra dall’alto doveva servire a ridurre il numero dei combattenti estremisti, a eliminare la rete globale del terrorismo e ad allontanare i terroristi dal resto della popolazione civile. Tutti obiettivi che gli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere.

Al momento, però, capire che direzione voglia prendere Biden risulta complicato. Come riportato da Foreign Affairs, mentre il presidente limitava il ricorso ai droni il direttore della Cia William Burns si consultava con il Pakistan e i talebani per avere il permesso a condurre attacchi contro obiettivi terroristici e discuteva con i governi di Uzbekistan, Tajikistan e Kazakhstan la possibilità di installare dei velivoli a controllo remoto nei loro territori.

Biden e l’anti-terrorismo

L’impiego di droni nella lotta al terrorismo ha caratterizzato la presidenza Obama, ma l’ideazione e l’implementazione della dottrina nota come counterterrorism plus portano la firma dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Biden, in qualità di vicepresidente, è stato il fautore nonché il maggiore sostenitore della guerra dall’alto, dell’uso delle forze speciale e della riduzione del numero di truppe sul terreno. Non a caso tra il 2009 e il 2017 sono stati ben 563 gli attacchi con droni condotti in aree non ufficialmente designate come zone di guerra e in quattro casi il target era un soggetto terroristico con passaporto anche americano.

Inoltre, nell’ambito del counterterrorism plus, gli Usa sono passati dai personality strikes, condotti contro una persona specifica, ai signature strikes, ossia attacchi contro obiettivi identificati sulla base di una operazione di profiling, profilazione. Uomini in età da combattimento individuati in probabili campi di addestramento o compound, seppur sconosciuti all’intelligence, sono così diventati obiettivi leciti degli attacchi americani.

Allo stesso tempo, però, Obama ha creato un sistema di regole più stringente rispetto a quello usato da Bush, arrivando anche a pubblicare i dati sugli attacchi autorizzati. L’uso massiccio di droni, come rivelato anche da una recente inchiesta del New York Times, ha però causato la morte di più di 1.300 civili dal 2014 a oggi senza che nessuno nell’amministrazione statunitense venisse mai chiamato a risponderne. I documenti del Pentagono analizzati dal Nyt dimostrano come non sia stata mai presa alcuna azione disciplinare e come solo in una decina di casi le famiglie delle vittime siano state risarcite.

Anche guardando ai quattro attacchi autorizzati da Biden emerge quanto alte siano le probabilità di errore nei raid con droni. L’airstrike condotto a Kabul ad agosto, in risposta all’attentato dell’Isis-K costato la vita a 13 soldati americani e centinaia di afghani, ha causato la morte di Zemari Ahmadi, collaboratore di una ong americana in Afghanistan, e nove membri della sua famiglia tra cui sette bambini.

I droni sono stati descritti a lungo come lo strumento perfetto per combattere il terrorismo in maniera economica, senza mettere in pericolo i soldati americani e riducendo i danni collaterali. Alla prova dei fatti, però, la dottrina sostenuta da Biden in qualità di vicepresidente si è dimostrata fallimentare e necessita un cambiamento urgente.

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